Coriandoli
democratici
Indecisi a tutto

Ogni giorno che passa il Partito democratico offre agli appassionati una nuova puntata della sua complicata vicenda congressuale. Non c’è da annoiarsi: capicorrente che traslocano da uno schieramento all’altro, candidati che si ritirano dalla corsa e altri che fanno un passo avanti, chi si offre e chi si nega, chi simula e chi dissimula. Un gran daffare, insomma. Un congresso che riuscirà (forse) a tenersi solo un anno dopo la pesantissima sconfitta elettorale della scorsa primavera è preceduto da una tormentata corsa per le primarie. Non c’è da stupirsi: nei partiti accade così, più è chiaro il senso del declino più aspra diventa la contesa interna, la lotta per l’ultimo strapuntino.

Non sembri ostile o irrispettosa questa considerazione nei confronti di un partito che fu del 41 per cento e che adesso dai sondaggi è dato anche al di sotto di quel terribile 16 per cento raccolto alle ultime elezioni politiche: sono gli stessi dem a parlare di un partito a terra, anzi «da superare». Un crollo, va detto, che si è concretizzato in pochissimi anni, quelli della fulminea stagione renziana, arrivata come una folata di vento e dissoltasi in un niente, proprio come è nello stile di Matteo, un furetto che quando proprio non ha nulla da fare gira su se stesso. Per un anno il Pd post renziano è rimasto appeso alle decisioni del suo ex segretario: che fa, se ne va, no non se ne va; resta, no fonda un altro partito: va per conto suo e non vuol vedere più nessuno, si dedica alla tv, macché sta già mettendo in piedi i circoli del suo movimento «alla Macron», non gliene importa niente di chi sarà il segretario; al contrario: è lì che manovra come un burattinaio nell’ombra… Contorsioni, tribolamenti distribuiti tra amici e nemici, fedelissimi e arci-nemici. Ne sa qualcosa Marco Minniti, l’ossuto ex ministro dell’Interno che dopo un parto elefantino è tornato al mondo come candidato avversario di Nicola Zingaretti, il governatore del Lazio primo a scendere in campo in nome della sinistra. È uscito allo scoperto, Minniti, sicuro di avere alle spalle proprio lui, Renzi, che lo sosteneva e lo incoraggiava. E invece l’amico Matteo un giorno ha fatto spallucce: «Minniti? Faccia un po’ lui come gli pare». Marco è un calabrese tutto d’un pezzo, non è stato al giochetto vedo-non vedo, ci sto-non ci sto: ha piantato tutti in asso ed è fuggito a gambe levate verso la sua casa-faro di Capo Passero, lontano da garbugli renziani.

I fedelissimi dell’ex segretario-premier allora sono tornati dal loro leader e lo hanno implorato: Matteo, candidati tu di nuovo segretario, con te li sbaragliamo tutti. Neanche per idea: «Io faccio il senatore e basta, ne ho avuto abbastanza di fuoco amico», ha risposto Renzi agli amici rivelando ancora una volta quale gigantesca carica di rancore ancora gli bolle dentro verso «gli amici» di partito.

E fu così che la corrente renziana, orgogliosa padrona assoluta del partito fino all’altroieri, proprio in queste ore si sta disperdendo. C’è chi appoggia Zingaretti, come Paolo Gentiloni, e chi proverà a sostenere Maurizio Martina come Delrio, Richetti e altri sconosciuti. C’è anche chi corre in solitaria, Roberto Giachetti, l’ex radicale sempre in bilico su uno sciopero della fame.

Coriandoli di partito democratico. Carlo Calenda dice che al congresso neanche andrà e che ci vorrebbe un «fronte repubblicano» anti-populista, altro che vecchio Pd delle correnti. Forse al momento del congresso neanche Renzi ci sarà più, magari sarà corso in cerca di una seconda giovinezza macroniana. Al congresso discuteranno personaggi tutto sommato minori su che fare con i grillini: allearsi per stanarli o restare sull’Aventino? I dem hanno un compito difficilissimo: dimostrare agli italiani che credono ancora essere l’alternativa al governo giallo-verde. Perché se non ci credono loro, tanto meno ci crederanno gli elettori.

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