Coronavirus, per i poveri
non andrà tutto bene

L’aggettivo è una provocazione. Ma serve a rimettere le cose a posto e soprattutto a riflettere sul mantra «andrà-tutto-bene» che alla prova dei fatti si sta rivelando una frottola. È il secondo documento della Pontificia Accademia per la vita su Covid-19: «Humana communitas nell’era della pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita». «Inattuali» non perché non siano attualissime ma perché non sono di moda, poco politically correct, perché si occupano della sofferenza globale e non solo dei ricchi che, più o meno, ce la faranno. Arriva al momento giusto, quando le domande scivolano via e ognuno ha deciso di occuparsi di sé. Esultiamo per la pioggia di denaro europeo e andiamo in vacanza. E gli altri? Chissenefrega.

Per questo la Pontificia Accademia per la vita, presieduta dal vescovo Vincenzo Paglia, getta sul tavolo una manciata di pagine «inattuali», invitando a ragionare sulla fragilità globale del sistema e ad un cambio di passo sullo «spensierato individualismo» che sbuca dalle politiche future post-Covid.

Né basta qualche briciolo di solidarietà in più ad una nuova «humana communitas», come ha osservato ieri monsignor Paglia: «Siamo tutti nella stessa tempesta, ma non siamo tutti sulla stessa barca». Questo è il punto cruciale. Una parte consistente della popolazione veleggia nella tempesta su fragili vascelli ed è destinata ad affondare più facilmente di altri. Per molti non c’è alcun «Recovery fund», nonostante l’interdipendenza globale e quindi la vulnerabilità siano comuni. Così accade che nei Paesi ricchi i sacrifici possano essere adesso ricompensati, mentre nei Paesi poveri, dove i sacrifici delle politiche di protezione erano e sono semplicemente impossibili, la situazione post-Covid aumenterà diseguaglianze e si sommerà ai drammi strutturali che alimentano le statistiche delle vite perdute. È sufficiente osservare la situazione dell’India per farsi un’idea. La pandemia poteva spezzare l’incantesimo di una narrazione economica, che finora solo il Papa e le Chiese denunciavano. Ci ha messi di fronte alla finitudine della vita in modo brutale anche qui da noi. Abbiamo chiamato i morti «caduti».

Eppure non abbiamo raggiunto la consapevolezza della fragilità, la sola che apre ad una nuova e diversa saggezza. Il Covid non è solo un prodotto di cause naturali e noi gli abbiamo dato una mano: «C’è un virus di nostra creazione, è il risultato più che la causa dell’avidità finanziaria, dell’accondiscendenza verso stili di vita definiti dal consumo e dall’eccesso». Dunque o apprendiamo la lezione o non andrà affatto tutto bene. Il tempo c’è e anche qualche speranza. Lo abbiamo visto in questi mesi quando comunità intere e medici e infermieri si sono battuti come leoni per contrastare l’inettitudine di alcune leadership politiche. Lo abbiamo visto nei giornalisti coscienziosi che hanno cercato di contrastare l’«infodermia». Alcuni Paesi hanno accettato di imparare da altri, Italia in testa, altri si sono arroccati con l’aggravante di ciniche e orgogliosissime reciproche accuse. Manca la consapevolezza della globalizzazione del rischio, altra questione «inattuale». Se la crisi favorisce l’individuazione dei contorni di una nuova «etica del rischio», radicata in un concetto morale e non solo tecnico di solidarietà, dove nessuno viene discriminato e dove i ricchi pagano di più il prezzo richiesto per la sopravvivenza del povero, allora oltre che stare tutti nella medesima perfetta tempesta potremmo forse farcela navigando nello stesso solido naviglio. Ma purtroppo tanti s’attrezzano a gestire da soli la propria tranquillità.

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