Corruzione a 5 Stelle
Conseguenze politiche

L’arresto di Marcello De Vito, presidente grillino dell’Assemblea capitolina segna probabilmente il punto più grave della crisi della Giunta Raggi. Va innanzitutto ricordato che De Vito non è uno qualunque nel M5S romano: è stato candidato sindaco prima della Raggi e, se avesse avuto l’appoggio di Di Maio, sarebbe diventato lui il primo cittadino della Capitale, anche perché risulta il consigliere M5S più votato, tanto che è soprannominato «mister preferenze».

Della Raggi ovviamente è un avversario e il fatto che sia caduto così rovinosamente deve aver lasciato a ciglio asciutto la sindaca (che pure si dichiara «sconvolta»). Ma De Vito non solo è un pezzo da novanta del Movimento, è anche il terzo capo grillino del Comune di Roma che va in galera: prima il braccio destro della Raggi, Giuseppe Marra, poi l’avvocato Lanzalone, il manager cui la sindaca aveva delegato l’occupazione delle poltrone più importanti delle società municipali, e adesso De Vito. Il quale nelle intercettazioni con un suo amico avvocato anche lui agli arresti diceva: «Questi ce li spartiamo subito» e quell’altro replicava: «Ci abbiamo solo due anni, non possiamo perdere la congiunzione astrale».

Tra due anni in effetti a Roma si torna a votare ed è matematicamente impossibile che i grillini riescano a rimanere aggrappati al cavallo di Marco Aurelio. Da notare che lo scandalo scoppia alla vigilia delle elezioni in Abruzzo in cui ci si attende un nuovo trionfo del centrodestra e il terzo crollo consecutivo del M5S. Dunque non stupisce che Di Maio, saltando a piè pari le competenze dei probiviri, abbia deciso da solo di espellere De Vito dal movimento e di lanciargli l’anatema: «Che rimanga mille miglia lontano da noi». La Raggi ha twittato: «La corruzione non trova spazio a Roma». Peccato che siamo, appunto, al terzo arresto guarda caso per malversazioni varie.

Ora, bisogna ricordare a chi abbia altro da fare che seguire da vicino le vicende politiche sulle sponde fangose del Tevere, che i romani quasi tre anni fa votarono in massa per Virginia Raggi per la comprensibile ragione che fino a quel momento sia la destra che la sinistra in Campidoglio avevano combinato disastri. Gianni Alemanno, ex An, era finito nella polvere per via di «Mafia Capitale» i cui soci criminali con lui sindaco facevano il bello e il cattivo tempo in Campidoglio; Ignazio Marino, Pd, era stato cacciato per manifesta inadeguatezza dai suoi stessi compagni di partito. Per cui al 70% dei romani la giovane avvocatina Virginia Raggi appariva come l’ultima spiaggia, l’ultima possibilità per non far cadere Roma ancora più in basso. Ebbene, i sondaggi ci dicono che dopo questi anni di lavoro, se si votasse oggi Virginia non arriverebbe nemmeno al ballottaggio, figuriamoci al 70% dei voti. La delusione è profondissima: Roma è in una situazione disastrosa come mai prima, sporca oltre ogni immaginazione, con le strade che sembrano delle sterrate, la città in mano alle corporazioni più prepotenti, come i tassisti e i venditori di souvenir che accerchiano monumenti, ospedali e stazioni; i trasporti a pezzi, gli autobus scassati che vanno a fuoco e le fermate delle metropolitane chiuse. Soprattutto Roma è una città impoverita cui nessuno ha dato una prospettiva di sviluppo, e infatti molte aziende se ne vanno e traslocano al Nord.

Insomma, quella che doveva essere la prima grande prova di governo per i 5 Stelle, la vetrina del «cambiamento», si è rivelata un gigantesco fiasco. Ora però sappiamo che l’imbarazzante incompetenza e impotenza della classe dirigente grillina a Roma si accompagnava anche a fenomeni diffusi di corruzione. E questo non potrà non avere conseguenze politiche ed elettorali per un movimento in piena crisi.

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