Corruzione, il serpente
ha rialzato la testa

Prima ha colpito, quasi occasionalmente, e solo di striscio uno dei suoi uomini di punta: il sottosegretario alle infrastrutture Armando Siri, l’inventore della flat tax, bandiera del Carroccio. Poi ha investito direttamente il vertice della Regione Lombardia, culla del leghismo e gran vanto del buon governo di marca «lumbard», nella persona del suo presidente Attilio Fontana, cui è stato inoltrato un avviso di garanzia per abuso d’ufficio, peraltro a latere di un’indagine più vasta su appalti e tangenti.

Infine, ha puntato sulla città simbolo della Lega, Legnano, il cui nome evoca la storica resistenza opposta da Alberto da Giussano al Barbarossa nel 1176, memoria vivente dello spirito indipendentistico delle genti lombarde. Sindaco, vicesindaco, assessore ai Lavori pubblici sono ora agli arresti. Insomma, Tangentopoli ha fatto la sua rumorosa irruzione nella campagna elettorale.

A dire il vero, anche il Pd è stato «attenzionato» dalla magistratura in questi ultimi mesi con suoi due governatori (Mario Oliviero in Calabria e Luciano D’Alfonso in Abruzzo), per non dire del M5S, investito dell’arresto di Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale capitolino. Sulla graticola, però, nel momento più alto della campagna elettorale è finita la Lega.

Dire Tangentopoli significa evocare il sistema tangentizio che a cavallo degli anni Novanta travolse l’intero arco dei partiti della Prima Repubblica. Un assist insperato per Di Maio, impegnato allo spasimo a recuperare i voti persi a vantaggio del rivale Salvini, che infatti non si è fatto scappare la ghiotta opportunità. Prontamente si è auto-investito della missione storica di annientare la Nuova, o meglio la sempiterna (perché non sarebbe mai morta) Tangentopoli. Un’arma propagandistica questa - lui spera – letale, capace di mettere in un angolo il temuto amico/nemico Salvini, finito nel mucchio dell’aborrita Casta. Il 26 maggio – è il suo invito agli elettori – si tratterà di «scegliere tra noi e la nuova Tangentopoli». Se non è il benservito alla Lega, poco ci manca.

Di Maio ha tutto l’interesse a ingigantire il fenomeno corruttivo. Per far tornare i suoi conti, è costretto a gonfiare le proporzioni e a sottacere gli elementi distintivi degli episodi di corruzione evidenziati dalla magistratura. Il malcostume politico, emerso dalle inchieste, non è però pienamente assimilabile alla Tangentopoli di trent’anni fa. Non è emersa nessuna «dazione» paragonabile alla maxi tangente Enimont. Non si parla di miliardi, ma di alcune decine di migliaia di euro. Inoltre, non sono i partiti i grandi corruttori, impegnati ad alimentare un dispendiosissimo sistema di finanziamento illecito. Indagati sono dei singoli o dei gruppi circoscritti che (secondo l’accusa) approfitterebbero della loro posizione a vario titolo: per ricevere denaro (è l’imputazione di Siri) o per consolidare il loro potere locale (sarebbe il caso di Legnano). Sempre di corruzione si tratta, questo è vero, ed è bene che susciti allarme nell’opinione pubblica. Facendo di tutta un’erba un fascio, non vorremmo, tuttavia, che si finisse col montare un polverone utile solo a creare un profitto elettorale. Un polverone che, come al tempo di Mani pulite, illudesse l’opinione pubblica sulla definitiva liquidazione del ceto politico infetto. I ceti politici invece si succedono. L’idea che la corruzione si possa sradicare una volta per tutte è pura illusione, ed è perniciosa perché disarma gli spiriti e impedisce che si apprestino i correttivi e le forme di vigilanza capaci di combatterla. Non esistono regimi immuni dalla corruzione. Esistono regimi vigili, ben attrezzati nel contrasto, implacabili nella repressione. Non sembra, purtroppo, il nostro caso. Liquidando trent’anni fa i partiti della Prima Repubblica si era pensato di aver liberato l’Italia dalla peste della corruzione. Abbiamo viceversa con ciò abbassato le armi e puntualmente il malcostume ha fatto rispuntare la testa.

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