Corruzione
trascurata

Nella classifica di Trasparency international sulla corruzione percepita stiamo messi male. Essere al 51° posto su 180 non è propriamente una cosa della quale ci si possa vantare. Non è una novità, anche se in classifica avanziamo di due posti. Una lumachina mentre sarebbe necessaria una gazzella per risalire la china. Un secolo fa Benedetto Croce scriveva che il peggio è quando la «corruzione si addensa e non scoppia». Detto in altri termini quando i fenomeni corruttivi – siano essi macroscopici o di modeste dimensioni – vengono assorbiti dal corpo sociale come se fossero fisiologici e non segno di una malattia che può avere effetti letali. Le vicende nostrane dimostrano, non da oggi, che siamo avvezzi a tollerare il fenomeno, perché siamo permeati dalla tolleranza verso comportamenti che alimentano o implicano o, semplicemente tollerano la corruzione, considerandola spesso un male necessario.

Un prezzo da pagare al progresso e alla modernità. Eppure, a bene vedere, il prezzo che paghiamo è salatissimo sotto tanti aspetti. In primis, la corruzione può anche avvantaggiare nell’immediato chi chiude gli occhi di fronte a pratiche illecite, ma finisce sempre per risultare a vantaggio di chi sulla corruzione lucra soldi e/o posizioni di potere.

A contrastare la corruzione hanno provato in tanti, a cominciare dalla magistratura. Le indagini del pool della Procura di Milano scoperchiarono nel ’92 un sistema di illeciti che aveva coinvolto politici, funzionari pubblici e imprenditori in modo invasivo. Ne derivò la crisi di un sistema politico che aveva retto nei primi quarant’anni della Repubblica. In quel momento storico si pensò (o meglio ci si illuse) che la lezione di «mani pulite» avesse creato anticorpi in grado di limitare, se non di far scomparire, la corruzione. Le vicende degli ultimi decenni dimostrano – al di là delle classifiche internazionali – quanto i ceppi di corruzione e di malaffare siano rimasti ben saldi nel tessuto civile. Divisi, magari non equamente, tra le diverse forze politiche, gli ambiti del sistema pubblico, il mondo d’impresa.

Si son succedute miriadi di leggi tese a combattere la corruzione, o leggi nelle quali si richiamava ogni volta il dovere di farlo. Leggi rimaste sulla carta anche a dispetto delle buone intenzioni di chi le aveva proposte e approvate. L’ultima in ordine di tempo, la legge «spazzacorrotti» è lì che attende di produrre risultati. Con un risvolto che sarebbe possibile definire comico, se non fosse drammatico: quanto più le leggi, a cominciare dal titolo, sono altisonanti, tanto più somigliano alle grida manzoniane: molto fumo e niente arrosto.

Si approvano poderosi provvedimenti legislativi senza affrontare aspetti essenziali come la regolamentazione delle lobby e del conflitto di interessi che tanti danni ha procurato al Paese. Si ha la netta sensazione che il ceto politico sia, insieme, miope e presbite. Non sa essere lungimirante e, al tempo stesso, non riesce a guardare intorno a sé. Esemplare, al riguardo, la vicenda dell’Autorità indipendente che avrebbe dovuto dare una svolta alla lotta alla corruzione: l’Anac. Nata malamente sulle ceneri di un organismo (Civit) che si occupava di controllo dell’attività dell’amministrazione, l’organismo presieduto fino a qualche mese fa da Raffaele Cantone sembra oggi quasi un simulacro. E rischia di diventare un gigante addormentato come tante altre istituzioni di questo Paese. Eppure Cantone si era speso senza risparmio, ma troppi gli intralci esterni e, ancor peggio, troppe le incombenze di un organismo che non ha mai trovato una collocazione adeguata e non è riuscito a incidere adeguatamente nell’imprimere la necessaria correttezza all’azione delle amministrazioni pubbliche.

Ha, dunque, ragione il presidente di Trasparency international Italia a sostenere che i segnali che vengono dalla classifica sulla corruzione percepita dai cittadini sono «contrastanti» e non vanno «completamente dalla parte del miglioramento auspicato». Ovvero: siamo lontani da un livello accettabile.

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