Cosa dice quella corsa
ad adottare bimbi migranti

Ci sono foto così potenti che «bucano», destando emozioni forti. Tragiche, come quella di Alan Kurdi, il piccolo siriano di due anni il cui corpo fu immortalato sulla spiaggia turca di Bodrun nel settembre 2005, vittima di un naufragio mentre con la sua famiglia cercava di raggiungere la Grecia. Così potente, quella immagine, da indurre l’Europa finalmente a reagire, a cercare una politica comunitaria e umanitaria per affrontare l’immigrazione. La Germania arrivò ad ospitare nell’arco di qualche giorno un milione di profughi siriani. Poi l’emozione col tempo svanì e tutto tornò come prima, con gli Stati ad agire ognuno per sé.

Altre fotografie invece suscitano tenerezza e desiderio di protezione, come quella del bimbo africano vestito solo di un pannolino e con al polso la fascetta di riconoscimento, ritto e spaventato mentre un volontario della nave Mare Jonio lo avvicina a un militare della Guardia costiera durante l’operazione di evacuazione di donne e bambini avvenuta qualche giorno fa al largo di Lampedusa. Era arrivato il via libera del Viminale alla discesa delle persone più fragili, dopo aver lasciato la nave al largo per giorni in balia delle onde e del caldo.

Ma anche il racconto può toccare le corde dell’emozione. Il quotidiano «Avvenire» nei giorni scorsi ha narrato la storia incredibile di Khalif, bambino del Mali di nove anni, che ha camminato per un anno per raggiungere l’Europa. Un percorso doloroso attraverso un pezzo d’Africa tra stenti, lavori forzati per pagarsi il viaggio, botte, ricatti e le prigioni dell’inferno libico. Anche lui era sul gommone che stava per affondare nel Mediterraneo quando mercoledì 28 agosto la «Mare Jonio» ha salvato 98 naufraghi, tra i quali 22 sotto i 10 anni, altri 6 minori non accompagnati e 26 donne, di cui quattro incinte. Alla faccia di chi dice che i migranti diretti verso le nostre coste sono solo giovani robusti, con catenine d’oro al collo e lo smartphone: uno stupidario dei luoghi comuni.

La fotografia di Francesco Bellina al bimbo africano sospeso nel vuoto tra due imbarcazioni e il racconto di Khalif hanno raggiunto il cuore di molti italiani. Decine di famiglie hanno contattato Mediterranea, la piattaforma civica italiana per il salvataggio dei migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale, e la redazione di «Avvenire» offrendo la loro disponibilità ad adottare i bambini salvati. È la potenza dell’infanzia resa invulnerabile a scatenare queste emozioni subitanee, senz’altro lodevoli e segno di un’Italia generosa, ma non sempre razionali. Quei piccoli infatti hanno i genitori – verso i quali nutriamo invece sospetti pregiudizievoli anche se non li conosciamo - e in ogni caso per poter adottare serve l’idoneità concessa da un Tribunale dei minori dopo un percorso di verifica sulla tenuta della coppia da parte di psicologi e servizi sociali. La disponibilità all’adozione si manifesta anche in altri casi, quando i media danno conto di neonati abbandonati in Italia vicino a depositi di rifiuti o nei parcheggi. Nel nostro Paese ogni anno ci sono poco più di mille piccoli dichiarati adottabili e che trovano famiglia (ci sono 10 domande per ogni minore). Secondo l’Unicef nel mondo 120 milioni di bambini sono senza famiglia ma non tutti adottabili, perché vivono in Paesi che non prevedono questa pratica. Sempre nel mondo in questi ultimi anni c’è stato un crollo delle adozioni internazionali fino all’80%, per via della crisi economica globale e di burocrazie che frappongono ostacoli.

Sono diverse le ragioni per cui milioni di piccoli sono soli: guerre e povertà soprattutto. Lo Yemen ad esempio sta producendo migliaia di orfani. Un conflitto oscurato, una guerra per procura tra Arabia Saudita, alla quale l’Italia vende armi, e Iran. Ma non solo orfani: al quarto anno di scontri, con 19 mila raid aerei anche contro ospedali e scuole, 6.500 bambini sono morti nei bombardamenti, 85 mila sotto i 5 anni per denutrizione e 1,5 milioni sono diventati profughi. E che dire della situazione delle isole greche, dove 24 mila migranti sono intrappolati in campi d’«accoglienza» sovraffollati e privi dei servizi per un’assistenza dignitosa? Nella clinica pediatrica di Medici senza frontiere a Lesbo ci sono 100 bambini in condizioni critiche, con problemi di cuore, epilessia e ferite di guerra. L’équipe di salute mentale pediatrica ha visto raddoppiare i piccoli pazienti: 73 nuovi casi tra luglio e agosto, il più piccolo di appena 2 anni, con tre tentati suicidi e 17 casi di autolesionismo. Storie come quella del bimbo evacuato dalla nave Mare Jonio o di Khalif, oltre a suscitare emozioni passeggere dovrebbero renderci più umani, più capaci di guardare alle ferite del mondo con compassione.

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