Dimissioni tattiche
Pd, grande debolezza

Le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla carica di segretario del Pd, annunciate su Facebook e non ancora formalizzate, hanno un forte sapore tattico. Così del resto molti hanno interpretato una mossa che appare destinata a «spiazzare» i numerosi avversari interni del Governatore del Lazio. Zingaretti dice che si dimette perché «si vergogna» del fatto che all’interno del Pd si stia parlando «di poltrone» in un momento tanto drammatico per l’Italia. Aggiunge che, siccome è lui il «bersaglio» delle critiche, fa «l’ennesimo atto» per mandare avanti la baracca e si toglie di mezzo. Da notare che l’aggettivo «irrevocabili» non compare mai accanto alla parola dimissioni e che Zingaretti rimette all’Assemblea nazionale del Pd, già convocata per il 13 marzo e annunciata come una resa dei conti tra le correnti, «le decisioni più opportune e utili» per il partito. Facile dunque sospettare che Zingaretti voglia, con questo annuncio, sollevare un coro di «resta con noi» da parte dei suoi sostenitori, prendere in contropiede la minoranza degli ex renziani e farsi rieleggere proprio all’Assemblea del 13 con più forza di quanto abbia ora. E questa è la tattica.

Ma quel che appare più evidente, dietro le «dimissioni», è la situazione di grande debolezza in cui si trova il Pd, partito tradizionalmente di «responsabilità istituzionale», abituato a far da sostegno a governi tecnici con la forza delle sue tradizioni e competenze (vedi Monti ma prima ancora Ciampi, Dini, Amato, ecc.) e che si ritrova con un governo - che Zingaretti non voleva - dove constata ogni giorno di essere marginale rispetto alla linea di Mario Draghi. Il presidente del Consiglio infatti va avanti silenziosamente per la sua strada e prende rapidamente le decisioni - basti guardare lo smantellamento della squadra anti-Covid di Conte - e lascia ai partiti il «teatrino», le chiacchiere, la propaganda. Certo, c’è Salvini che si annette «vittorie» come la rimozione del commissario Arcuri, quando non è nemmeno chiaro se mai Draghi abbia consultato in merito il parere dei partiti. Ma il Pd non ha nemmeno questo.

Non centrale nel governo, come pure sentirebbe essere suo diritto naturale, il Pd è in difficoltà anche nei confronti del M5S che Zingaretti da tempo considera alleato strategico (non a caso nella giunta del Lazio i grillini stanno entrando formalmente). La difficoltà si è accentuata quando Grillo ha imposto Conte come capo politico del Movimento per combattere la gravissima crisi interna fatta di perdita dell’ identità, confusione, lotta spietata di tutti contro tutti, inadeguatezza politica, disaffezione della base e soprattutto crisi di consenso elettorale. Ebbene, è bastato che Conte apparisse come capo che i sondaggi hanno immediatamente registrato un aumento di ben sei punti percentuali del consenso del Movimento, balzato da un miserrimo 14% addirittura al 20. Contemporaneamente il Pd ha fatto il percorso inverso: è crollato dal 20 al 14, dimostrando così che Conte «ruba» voti al Pd perché pesca nella stessa area elettorale. Dunque l’ex presidente del Consiglio, che Zingaretti immaginava addirittura come il «federatore» dell’area progressista e di un’alleanza organica Pd-M5S, diventa leader di un partito avversario che sposta tanti voti a danno proprio dei democratici. È fatale dunque che Zingaretti, primo sostenitore di Conte e del rapporto con i grillini, vada in crisi: se il Pd non tocca palla nel governo e si fa rubare i voti dai presunti alleati la sua leadership va in pezzi. E di fronte alle contestazioni degli avversari interni non resta che giocare la carta delle dimissioni annunciate per farsele respingere. Può darsi che la mossa funzioni e che Nicola Zingaretti venga trionfalmente confermato nel suo ruolo di segretario, ma il nodo di una linea politica che non funziona resterà ancora da sciogliere.

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