Dio salvi la regina, ma anche gli inglesi
dal «Trump» della Brexit

Dio salvi la regina, e va bene. Avrà il suo da fare, però, a tenere una mano sul capo anche agli altri inglesi, perché le cose non stanno andando
a meraviglia, a Londra e dintorni. Intanto c’è il Covid-19, che nel Regno Unito ha fatto più di 57 mila morti, il bilancio più pesante tra gli Stati europei. Tutti ricordano le incertezze di Boris Johnson all’inizio della pandemia, il suo affidarsi ai teorici dell’immunità di gregge, la tardiva marcia indietro,
la malattia che lo portò a rischiare la vita. Da allora, non si è mai avuta la sensazione che il suo Governo fosse davvero padrone della situazione. E forse non solo il Governo. È vero, gli inglesi hanno scaricato in massa l’equivalente della nostra app Immuni. Però, secondo un sondaggio pubblicato dal New York Times, tra gli inglesi che hanno manifestato sintomi compatibili con il virus, solo uno su cinque è rimasto in isolamento volontario; e tra quelli che hanno avuto contatti diretti con persone positive al virus, solo uno su dieci ha evitato di andarsene in giro come se niente fosse.

Nel frattempo, il Governo ha fatto sapere che quando ci sarà il vaccino, solo circa 30 milioni di persone (ovvero, metà della popolazione del Regno Unito) potrà disporne, mentre gli altri dovranno pazientare chissà quanto. E come se non bastasse, ci si è messa pure la tecnologia. I computer del ministero della Salute si sono persi i dati di 16 mila persone contagiate dal virus nel periodo 25 settembre-2 ottobre, con imprecisate ma non piacevoli conseguenze sul controllo della pandemia.

Era più che abbastanza perché l’operato del Governo venisse duramente attaccato. Dall’opposizione laburista (Keir Starmer, il leader che nell’aprile scorso ha sostituito Jeremy Corbyn, cresce nei sondaggi) ma anche dalla stampa conservatrice. E qui s’innesta la «questione Johnson». Molti danno il premier in declino, altri pensano che, semplicemente, le asperità del governo del Paese abbiano messo in luce la sua inadeguatezza. I giornali lo descrivono spento, erratico. Fiaccato dalla malattia, da cui non si è mai davvero ripreso, e anche da vicende personali che non lo lasciano tranquillo. Johnson, però, ha anche un problema politico con il Partito Conservatore, che non lo ama ma che gli ha fatto strada perché il vulcanico ex-giornalista era l’unico che potesse vincere le elezioni, com’è poi in effetti avvenuto. In altre parole, Johnson è il Trump del Regno Unito: un outsider che l’establishment ha subito, forse sopportato, ma mai davvero adottato.

In questa bella atmosfera il Regno Unito si avvia verso la Brexit. Non è un mistero che Johnson non sia per nulla preoccupato dalla prospettiva di una Brexit «hard», cioè senza accordi con la Ue. Provocatorio come sempre, ha portato in Parlamento, che l’ha approvato, un Internal Market Bill che ripropone l’idea di un confine fisico tra Irlanda (che è Ue) e Irlanda del Nord (Regno Unito), per separare del tutto le due entità. E sulla pesca, che pure non ha grande importanza nell’economia britannica, fa di tutto per far saltare i nervi ai negoziatori europei.

Insomma, Johnson sta mandando all’aria l’accordo di separazione raggiunto con Bruxelles nel gennaio scorso. Per cautelarsi, le autorità comunitarie hanno minacciato sanzioni e si sono rivolte all’Alta Corte di Giustizia. A Johnson tutto questo fa poco effetto. Ma il 31 dicembre, la scadenza finale, si avvicina. E forse qualche effetto lo farà la minaccia di grandi aziende come Nissan e Toyota, decise a far causa al Governo inglese in caso di mancato accordo con la Ue.

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