Faccia feroce
Spalle fragili

La Ue stima in un meno 11,2% il nostro Pil di fine anno. L’Istat prevede che circa il 30% delle imprese sia a rischio fallimento. La Banca d’Italia calcola che la maggioranza delle famiglie italiane abbia già subito una contrazione netta del proprio reddito. L’Ocse quantifica in un milione il numero dei disoccupati post-Covid. Dulcis in fundo: se tutto va bene, l’anno prossimo il Pil recupererà la metà della perdita subita quest’anno. Pressati da una crisi di tale portata, gli italiani non smettono di invocare interventi pronti ed efficaci, capaci di

toglierli dal baratro a cui sono giunti e dal quale potrebbero presto essere inghiottiti. Le misure finora adottate si sono rivelate insufficienti, tardive, macchinose. Cedendo un po’ all’iperbole, potremmo dire, parafrasando Lucio Battisti, che il nostro Paese s’è messo a «guidare come un pazzo a fari spenti nella notte». Tutto sta a vedere se il governo, come recitano i bei versi di «Emozioni», è intenzionato a «vedere se poi è così difficile morire». Le condizioni ci sono tutte: la notte buia della crisi, i fari spenti di chi non sembra in grado di prendere decisioni. C’è solo d’aspettare per vedere se ci sarà una brutta fine!

C’è un velo di follia in tutto questo e, come in ogni follia, non mancano deliri e allucinazioni. Conte ha un delirio di trionfalismo, Salvini di potenza. Fanno entrambi la faccia feroce e non si accorgono di avere spalle fragili. Il premier dispone di una maggioranza con quattro gambe, tutte traballanti. Renzi, con una giravolta da equilibrista, si propone oggi come alfiere della stabilità, non dopo aver minacciato di sfiduciare il ministro grillino Bonafede. Zingaretti un giorno fa sfoggio della propria soddisfazione per i successi riscossi dall’azione riformatrice del governo e il giorno dopo lancia un accorato appello al governo perché dalle parole passi finalmente ai fatti. Crimi, il facente funzioni temporaneo di segretario dei Cinquestelle, assiste con la stupefazione di vichiana memoria alla trasfigurazione del Movimento in partito di cui impara a conoscere le convulsioni correntizie ancor prima di conoscere i pregi di un’organizzazione finalmente istituzionalizzata. Speranza, il politico più in vista di LeU, è quello che fa meno danni. Si accontenta di salvaguardare al suo partito il ruolo di socio minore di maggioranza.

Da parte sua, il capo della Lega non smette di arrogarsi il titolo di leader del centro-destra nonché di annunciato premier di una coalizione sovranista riuscita vittoriosa, quando non si sa né se il centro-destra sarà vittorioso né se toccherà davvero a lui, in caso di vittoria, presiedere il nuovo governo. La Meloni lo tallona nei sondaggi e lo marca stretto nelle uscite pubbliche. Berlusconi fa il pesce in barile. Assicura lealtà alla coalizione ma al contempo non smette di offrire la sua disponibilità per nuove, imprecisate maggioranze.

Più comunque dei deliri di onnipotenza, fanno male al paese le allucinazioni che inducono i nostri politici a proclamare, sul tema cruciale della crescita, possibilità che non esistono. Tutti concordano che non si può vivere indefinitivamente di provvidenze a disoccupati e imprese se non si vuole finire soffocati da una montagna crescente di debito pubblico. La soluzione è – e non può non essere - creare lavoro. Eppure, nessuno dispone ancora della ricetta giusta per rilanciare la crescita. Conte disdegna i 37 miliardi (non propriamente dei bruscolini) messi a disposizione dal Mes per vantare poi la disponibilità degli eventuali, prossimi venturi, 170 miliardi del Recovery Fund, quando la nostra economia è disperatamente a secco di finanziamenti. Salvini e con lui la Meloni rifiutano sdegnosamente l’aiuto, di fatto gratuito, del Mes e vagheggiano un finanziamento del nostro colossale debito pubblico da parte dei soli italiani: un finanziamento ancora tutto da ottenere e pur sempre da ripagare, peraltro ad un tasso di interesse più oneroso rispetto agli aiuti della Ue.

Sarebbe ora di accendere i fari e finire la corsa cercando di non sbattere contro un muro.

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