Dopo i ballottaggi vinti
Il Pd regge il governo e alza la voce

È probabile che quanto si è visto nei ballottaggi dei Comuni che hanno completato il turno elettorale del 20 e 21 settembre risponda ai più segreti desideri dei dirigenti del Pd a riguardo dei loro «alleati» grillini. Infatti il M5S domenica scorsa ha perso tutti e quattro i Comuni che aveva conquistato nella precedente tornata (anticipando così la sorte che aspetta Virginia Raggi a Roma) ma nello stesso tempo hanno contribuito in 9 città a far vincere i sindaci del Pd o vicini al Pd. Ecco il sogno di Franceschini e Goffredo Bettini: che la crisi del M5S rimetta in circolo i voti di sinistra e centrosinistra che avevano abbandonato il loro partito tradizionale perché delusi e perché attratti dalla sirena di Beppe Grillo. E nello stesso tempo che quei voti tornino a casa, nel Partito democratico, riducendo il M5S a pura ruota di scorta a Roma come nelle amministrazioni locali. A queste condizioni si potrebbe fare una vera e propria alleanza politica con quel che rimane del partito ex di maggioranza relativa anche dopo una possibile scissione guidata da Alessandro Di Battista, fermamente contrario alle intese per quello che lui continua a considerare «il partito di Bibbiano».

A ben guardare, il voto amministrativo conferma ancora una volta che il blocco elettorale che aveva portato il movimento pentastellato oltre il 30% si è quasi liquefatto e che la rappresentanza parlamentare e di governo è lontana anni luce dalla realtà concreta: non basteranno certo gli Stati generali del movimento convocati per i primi di novembre a risolvere una crisi profonda di identità e di ruolo cui l’auspicata «gestione collegiale» farà l’effetto di uno sciroppo messo a combattere con la polmonite.

In questo contesto il Pd, dopo la sofferta tenuta nelle regioni, può a buon ragione festeggiare il proprio avanzamento nei Comuni (passa da 16 a 27 nei ballottaggi) e confermarsi nell’idea di essere sempre di più il bastione che regge il governo. A Conte dunque uno Zingaretti rinfrancato continua a porre condizioni e a lanciare avvertimenti perché cambi passo rispetto alla tattica del continuo rinvio: da questo punto di vista l’avvenuta revisione dei decreti Salvini soddisfa Via del Nazareno perché supera tutte le perplessità e le contrarietà dell’arcipelago grillino. Semmai il problema di Zingaretti è osservare da vicino le mosse di Matteo Renzi che continua ad evocare una «seconda fase» da tradurre in un solo in un modo: rimpasto delle poltrone. Mattarella ha già chiarito discretamente che il rimescolamento degli incarichi ministeriali porterebbe ad un rinvio alle Camere e ad un nuovo voto di fiducia, una procedura obbligata ma rischiosa.

La fragile coalizione che tiene accesa la luce a Palazzo Chigi potrebbe non essere nelle condizioni di portarla a termine: ecco perché Zingaretti continua a negare di avere ambizioni personali anche di fronte a chi, interessatamente, sostiene che un governo con tutti i leader dentro sarebbe il modo migliore per affrontare la gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund. Su cui, ecco una mezza buona notizia, l’Europa – spaventata dall’affacciarsi di una nuova seconda ondata di Covid – sembra stia finalmente accelerando superando le resistenze degli olandesi e degli altri frugali che non perdono occasione per mettere i bastoni tra le ruote alla Commissione ma che proprio nelle ultime ore sono stati isolati nelle riunioni dei ministri finanziari dei Ventisette. C’è però sempre sullo sfondo lo spettro del Mes ad agitare i sonni di Conte, Gualtieri e Di Maio ma per il momento al Tesoro ripetono che «non bisogna drammatizzare» e che lo Stato italiano non ha problemi di liquidità tanto da doversi rivolgere al Fondo salva Stati. Parole che vanno lette soprattutto in chiave di politica interna.

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