Draghi? Meglio al Quirinale

Nel corso del 2020, alla già arrancante crescita economica del nostro Paese si è aggiunta una condizione di grave choc di domanda e offerta legata principalmente all’esplosione pandemica. La conseguente pesantissima crisi socioeconomica ha reso necessarie politiche di bilancio espansive, le uniche in grado di evitare danni irreparabili al nostro tessuto produttivo.

Tale necessità, si è inevitabilmente scontrata con il forte rischio di far crescere il nostro già enorme debito pubblico, avviandolo a superare il 150% del Pil. All’interno di tale scenario e di un percorso forzato e parecchio dissestato da dover affrontare, un ancoraggio più che propizio ci è stato offerto dalle risorse messeci a disposizione dall’Europa con i 20 miliardi del fondo per la Cassa integrazione (Sure), altri 20 miliardi per le garanzie dei crediti alle imprese, 36 miliardi del Mes per la sanità (inspiegabilmente non utilizzato) e, soprattutto, ben 172 miliardi del piano «Next generation Ue».

Obiettivo di quest’ultimo era garantire alle nuove generazioni una concreta prospettiva di sviluppo sul piano economico e sociale attraverso la realizzazione di grandi investimenti pubblici e il sostegno d’investimenti privati che mirassero allo sviluppo della digitalizzazione e fossero in linea con i principi dello «sviluppo sostenibile». Realizzare una decisa dinamica della produttività di sistema, con conseguente crescita del Pil, avrebbe contribuito a far scendere il rapporto col debito, assicurandone la sostenibilità prospettica. Da qui, in presenza della crisi del governo Conte e di una classe politica tanto eterogenea e litigiosa quanto accomunata da una drammatica inadeguatezza complessiva, la scelta del presidente Mattarella di proporre al Paese un governo di unità nazionale, guidato da una personalità di comprovato prestigio internazionale come Mario Draghi.

In quell’occasione, mi permisi di sostenere su queste stesse pagine che Draghi come presidente del Consiglio avrebbe corso gravi rischi in qualità di timoniere di un Paese come il nostro dove la politica – quasi tutta oramai con la «p» minuscola – naviga a vista non più alla ricerca di orizzonti, ma di approdi di convenienza personale e partitica, che per definizione non possono che essere contraddittori e incoerenti.

In questo film dall’esito ahimè scontato, era inevitabile che i provvedimenti «necessari» posti in essere da un «tecnico» della caratura di Mario Draghi – autore, tra l’altro circa un decennio prima, di una famosa lettera al governo Berlusconi rimasta inevasa – dopo un iniziale plauso generale, anch’esso opportunistico, avrebbero ricevuto critiche a buon mercato e accuse di tenere conto più dei conti pubblici che delle esigenze dei cittadini, come se gli uni non influenzassero la qualità dei progetti di vita dei secondi.

Chi entra a Palazzo Chigi, se non ha effettivamente un largo sostegno politico, che si è dimostrato difficile da realizzare con forze distanti tra loro, comincia a indebolirsi dal primo giorno. C’è una sola dimora politica in Italia che sfugge a questo destino e che, vista la scadenza del mandato di Mattarella, sarebbe stata la destinazione ideale per Mario Draghi: il Quirinale. Chi vi sale, proprio perché tutti sanno che tranne eventi straordinari durerà in carica sette anni, si rafforza dal primo giorno. Draghi, che è uomo di conti, di bilanci e di convergenze internazionali, avrebbe rappresentato il punto di riferimento essenziale come suggeritore o correttore della politica economica del governo e come garante dello stesso nei confronti dei partner europei e d’oltreoceano. Invece, in un Paese per molti versi grottesco in cui tutto e il contrario di tutto pare ormai possibile, proprio il M5S e il centro destra, che più di tutti avevano sostenuto l’opportunità che Draghi rimanesse a Palazzo Chigi e che Mattarella venisse confermato al Quirinale, hanno guidato l’ammutinamento, creando le condizioni perché il timoniere Draghi abbandonasse un ormai logoro barcone.

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