Economia
più sociale
con la mano
pubblica

Lo sviluppo economico non va disgiunto dal progresso sociale, sennò semina squilibri e disuguaglianze, perpetuando gravi ingiustizie. Quel che sosteneva anni fa Pierre Carniti, storico leader della Cisl, vale ancora oggi. Il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, esprime analoga tensione con parole diverse, quando parla del lavoro come di una «bomba sociale». Tempi autocritici: pure l’«Economist», il giornale di riferimento
delle élites transnazionali, nell’affrontare capitalismo e democrazia, ha proposto un «Manifesto per il rinnovamento del liberalismo».

Nel momento in cui si liberalizzano i licenziamenti, c’è da chiedersi quali siano le opportunità di reinserimento per chi perde il lavoro, e se con un reddito adeguato, altrimenti la crescita sostenibile resta un’astrazione retorica. Il boom degli anni ’50 venne finanziato dai magri stipendi: replica in arrivo? Anche questo è il senso del documento di un nutrito gruppo di economisti che, nel criticare alcune nomine di consulenti «liberisti» da parte del governo, ha chiesto più attenzione all’intervento pubblico in economia. Presa di posizione contro la quale giornali come il «Foglio» e il «Corriere della Sera» hanno usato l’artiglieria pesante fuori luogo, come se chiedere l’intervento della mano pubblica (il ritorno alle politiche del celebre economista Keynes) sia un atto disturbatore della quiete pubblica. La teoria economica e l’esperienza negativa di più di un decennio forniscono indicazioni su come procedere.

Il Patto di stabilità e crescita dell’Europa non ha dato né stabilità né crescita. Il reddito pro capite di oggi è lo stesso del Duemila. Vent’anni persi. Dal 2008 il reddito medio è crollato e dal 1992, con la più dura manovra di bilancio della storia unitaria, l’innalzamento della disuguaglianza di reddito non s’è più arrestato, penalizzando il ceto medio. Oggi il tasso di disoccupazione in Italia, già alto, misura una quantità riduttiva, perché in realtà non tiene conto di coloro che rinunciano a cercare un lavoro, gli «scoraggiati». Stiamo peggio di quel che si crede. L’Italia, secondo i nuovi standard statistici europei, ha il più alto potenziale inutilizzato di capacità di lavoro. Dalla crisi del 2008 il deficit della natalità s’è aggiunto a quello degli investimenti. Il lavoro quando c’è si rivela mal retribuito. Checché se ne dica, c’è una offerta di lavoro tanto gigantesca quanto inutilizzata in un Paese con la più bassa istruzione terziaria in Europa: un esercito di inoccupati non qualificato galleggia e chi ha titolo se ne va all’estero. Negli ultimi 10 anni il Patto di stabilità e crescita dell’Europa non ha dato né stabilità né crescita, mentre l’austerità espansiva e i tagli lineari allo Stato sociale hanno solo indebolito sanità pubblica e istruzione. «Una genuina ripresa – ha scritto l’economista Luigi Campiglio su “Vita e Pensiero”, la rivista dell’Università Cattolica – dovrà basarsi sui consumi interni delle famiglie e quindi sull’aumento del loro reddito disponibile, con incentivi al consumo per i settori più colpiti». Le politiche dell’austerità non hanno funzionato, anzi hanno fatto danni sul piano degli investimenti. Opportuno provare qualcosa d’altro: fra grande depressione ed elevata disoccupazione, gli investimenti pubblici possono essere positivi dopo un decennio fallimentare. È proprio Natalino Irti, un grande giurista liberale, non un sovversivo, a chiedersi sul «Sole 24 Ore» di ieri, se con 5 milioni di poveri come possano essere soddisfatti i diritti della Costituzione. È ora, aggiunge, che il professato liberalsocialismo si attui, altrimenti l’economia sociale di mercato si tramuta in economia di mercato senza socialità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA