Efficienza e innovazione restano
le sfide per il Paese oltre l’opportunismo

Con una lettera inviata alla Commissione Ue, il governo italiano chiede l’attivazione del fondo Sure contro la disoccupazione per un valore di 28,5 miliardi di euro. La spesa di 19 miliardi di euro dei decreti Cura Italia e Rilancio viene così coperta. Non sono soldi regalati e andranno restituiti, si tratta di obbligazioni emesse dall’Unione Europea con garanzia dei singoli Stati. Nel 2019 il deficit di bilancio italiano è stato dell’1,6%, un buon dato se rapportato a Paesi come la Francia che regolarmente vanno oltre il 3%. E tuttavia nonostante il punto di partenza fosse di vantaggio all’Italia, è riuscito anche questa volta di superare le aspettative.

Per il 2020 ci si attende un deficit oltre il 12%, il più alto nell’area euro. Nei dieci anni dal 2000 al 2010 per ogni euro creato ve ne sono stati tre a debito. Il che vuol dire che i soldi prestati non vengono investiti nel miglioramento della struttura produttiva ma si perdono in spese correnti. Soddisfano le esigenze nell’immediato ma non garantiscono per il futuro.

Che è poi l’istinto di sopravvivenza di ogni governo italiano: mitigare il divario fra ceti produttivi e fasce di popolazione vocate all’assistenzialismo. Nei Paesi anglosassoni si offrono pari opportunità di partenza, nell’Europa continentale sussidi. Tutto questo ha un costo e si chiama carico fiscale. Se le prestazioni dello Stato sociale sono buone, il cittadino è incentivato a offrire il suo contributo al bene pubblico. Ed è quello che accade nei Paesi nordici. Ma se invece il denaro del contribuente è male amministrato va da sé che la spesa aumenta, i servizi peggiorano e si dà pretesto all’evasione fiscale.

Per ovviare a questi inconvenienti e cercare di mantenere un livello minimo di offerta, il governo ha due opzioni: o elimina in modo progressivo le storture e ne paga i costi politici o va a debito e copre con il denaro a prestito le inefficienze. Un gioco che ha funzionato a partire dagli anni Ottanta. Lo Stato italiano subentra come calmiere di disoccupazione, i concorsi nel pubblico impiego perdono di valenza selettiva e la priorità non è più la prestazione ma le assunzioni per contenere gli squilibri tra ceti produttivi e improduttivi.

È qui che comincia il degrado della burocrazia italiana. I tagli al bilancio pubblico a partire dal 2011 hanno ridotto gli eccessi ma la mancata efficienza è sempre là. E lo testimoniano i vuoti di competenza professionale che assillano i ministeri. Non ultimo quello dei controlli alle strutture pubbliche, affidate in concessione, come si vede nella manutenzione della rete stradale.

I cosiddetti «frugal four», in sede di trattativa per il Recovery Fund, diffidano dell’Italia perché temono l’inefficienza della pubblica amministrazione e la vocazione al «carpe diem» del suo personale. Il futuro del Paese si gioca sull’high tech e mentre sull’assistenza sociale i fondi si sono visti, non si vedono all’orizzonte piani di rilancio della capacità innovativa. Il Fondo Italiano ha incentivato i venture capital ma mancano i progetti perché in Italia difetta la collaborazione tra atenei di ricerca e aziende. E mancano grandi aziende a livello globale del genere di Ikea che restituisce i soldi ricevuti dai vari Stati come sovvenzione Covid perché la crisi non era così grave come i dirigenti avevano pianificato.

In Italia il colosso svedese rinuncia alla cassa integrazione. Un grande spot di etica sociale in un Paese dove si stima che il 30% delle imprese aiutate dallo Stato non ha subito riduzioni di fatturato e si è nascosta dietro l’emergenza.

L’opportunismo del momento è il grande nemico della ripresa.

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