Europa e America,
nuovo ciclo da costruire

L’Europa aveva da poco celebrato l’«amico ritrovato», Biden, ed ecco il collasso afghano, consumato senza consultare gli alleati. «L’America è tornata», il motto del presidente, in effetti contrasta con la terribile beffa dei talebani e con la luna di miele attesa fra Washington e il vecchio continente. Passata la tempesta, perché passerà, sarà però opportuno cercare di capire questo momento storico. «Le democrazie liberali – ha scritto G. John Ikenberry, uno dei maggiori esperti mondiali di politica internazionale, nel suo recente “Un mondo sicuro per la democrazia” edito da Vita e Pensiero – possono essere al sicuro soltanto insieme, ma non sole. Questa è l’intuizione fondamentale che guida l’internazionalismo liberale». L’internazionalismo liberale, l’idea di proporre la democrazia per garantire pace e benessere, dal 1945 ad oggi ha avuto consenso ed esiti alterni. Le due guerre di Bush, in Afghanistan e in Iraq, se non inconcludenti si sono rivelate inefficaci.

Qual è stato il prezzo per la più grande potenza al mondo? Diceva bene l’ex segretaria di Stato democratica Madeleine Albright: «Imporre la democrazia con la forza delle armi è un ossimoro». Il terrorismo organizzato, è vero, è stato battuto sul terreno, tuttavia la guerra al terrore è un conflitto asimmetrico e non convenzionale: non ha una conclusione definitiva e non termina con un vincitore sul campo. È un processo aperto. Biden paga il conto di guerre sbagliate, o comunque protrattesi troppo a lungo, portando a compimento un percorso iniziato da Obama e continuato da Trump. Un ripiegamento richiesto dal fronte interno, dai cittadini americani, stanchi di guerre infinite che non capiscono. Lo strazio dell’11 Settembre aveva chiuso la Belle Époque di un mondo riconciliato dopo il crollo del Muro, il post Afghanistan apre un uovo ciclo: per l’America e per l’Europa. Il contenzioso con la Cina, potenza revisionista, è molto ma non tutto.

L’indispensabile America, che ha la caratteristica di essere l’invidia e il cruccio di mezzo mondo, è spaccata in due, se non lacerata. Quello di Biden appare un riposizionamento per correggere i termini geopolitici di un impero in declino relativo nel disordine globale e per curare le ferite sociali e identitarie di un ceto medio in caduta libera. Trump non è stato un semplice accidente della storia. La frattura che attraversa la grande democrazia supera persino lo scontro culturale degli anni ’70 fra il repubblicano Nixon e i liberal sessantottini. In questo intervallo l’Europa che ruolo può avere? L’agenda della sicurezza e della difesa messe in comune, spesso semplificata alla sola immigrazione, è una carenza di lunga data: motivi storici e culturali, per una potenza civile non a suo agio al fronte, e che con l’ombrello americano s’è garantita sicurezza a buon mercato.

Lo ha capito Macron con l’idea di una «autonomia strategica», ma l’europeismo della Francia ha una coloritura da sospetta grandeur. C’è una vulnerabilità che va dal Baltico al Mediterraneo e la stessa Europa geografica ha visto mutati i propri confini con l’annessione russa della Crimea. In Libia, il nostro cortile di casa, sono sbarcati Turchia e Russia. Il confronto-dialogo con la Russia registra sensibilità distanti: pensiamo alle paure dell’Est. La sicurezza presuppone un consenso che non è alle viste, anche perché le priorità sono altre: Covid ed economia. Alla vigilia dell’uscita di scena di Angela Merkel e a un anno dalle presidenziali in Francia, i rischi sono due: che la Ue si attardi a contemplarsi sugli allori del Recovery Plan e che rallenti l’integrazione per deficit di leadership.

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