Europa, la rottura
tra centro e periferia

Li abbiamo visti anche sabato 2 febbraio, come avviene tutti i sabati da alcuni mesi: i gilet gialli sono ormai parte del paesaggio ambientale della Francia. Una protesta che nei fatti sta mutando di segno per trasformarsi in agitazione politica. Una rivolta dei Piccoli (operai, artigiani, impiegati) che non riguarda solo i nostri discussi cugini, perché dà lo sfondo dell’Europa di oggi, incrociando più questioni: il conflitto centro-periferia, il deficit demografico, la tutela dell’ambiente, la disintegrazione del ceto medio, le identità perdute.

È la tempesta perfetta, in quanto chiama in causa qualcosa che ci coinvolge da vicino e che ci trascineremo a lungo: il fallimento delle élites e la secessione delle classi popolari. Ossia lo spettro che s’aggira per il continente: la ricaduta dei grandi tornanti storici (globalizzazione e dintorni, società aperta, disuguaglianze) sull’esistenza quotidiana della gente comune. Il rincaro del diesel ha appiccato l’incendio di chi vive dovendo usare l’auto per lavoro, ma la cornice è più profonda. Vale in Francia come in Italia e ovunque nella vecchia Europa: il ritorno di storie nascoste e dimenticate, il protagonismo degli invisibili delle zone rurali, che hanno voltato le spalle alle cerchie ristrette mondializzate delle metropoli che godono di un adeguato potere d’acquisto.

I gilet gialli «inquinatori» contro le élites ambientaliste, anche se parcheggiano in terza fila. Enrico Letta, nel suo intervento di venerdì a Bergamo, ha parlato di un meccanismo micidiale, certo molto francese ma anche a rischio contagio: in questo modo chi è nato nella culla giusta, a differenza di chi è cascato in quella sbagliata, può permettersi il lusso di pensare al bene della natura, è nelle condizioni e nelle possibilità di investire nel futuro. Ma se è così, siamo dinanzi al fallimento dell’ambientalismo. Ambientalismo che a questo punto diventa una metafora: prende dentro tutto ciò che è vita, relazioni, costumi. La società aperta, che in teoria dovrebbe dare riparo a tutti, non è un pranzo di gala e va tutelata da se stessa: va corretta per essere difesa. In una fase in cui le culture politiche tradizionali hanno perso il monopolio della storia, ci accorgiamo che s’è spezzato pure il filo rosso dell’evolversi europeo: s’è inceppata la tendenza al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti medio-bassi.

La frattura centro-periferia, fra chi si sente dalla parte giusta della storia e chi si ritiene sul lato perdente, è nota e l’abbiamo vista anche nella traduzione politica della Brexit, tuttavia va indagata più a fondo. Quel che dice il geografo Christophe Guilluy, ripreso dal «Foglio», supera i confini francesi: «Dal contadino storicamente di destra all’operaio storicamente di sinistra, i gilet gialli constatano che il modello della globalizzazione non li integra più. Mentre il mondo che sta in alto riafferma senza sosta la sua identità culturale (la città globalizzata, il bio, il vivre-ensemble), i gilet gialli non hanno intenzione di piegarsi al modello economico e culturale che li esclude». Oltre questo perimetro c’è un’altra questione descritta dall’illustre economista Nicolas Baverez (un liberale, non un sovversivo): «La rivoluzione tecnologica e digitale ha contribuito alla polarizzazione degli individui e dei territori tanto quanto la globalizzazione». Fatica e sofferenza, insomma, dell’essere provinciali, un mondo orfano di avvocati difensori, che diventa solitudine e rabbia: la rottura di un universo mentale ha aperto una fase critica nel calderone delle rivendicazioni. Ma c’è di più: fra i due estremi, fra i gruppi sociali più dinamici e quelli che non tengono il passo, manca un canale di collegamento, non si scorge uno spazio politico. Contrariamente a quel che sosteneva la signora Thatcher negli anni ’80, la società esiste, eccome. Si paga il prezzo di aver reciso i legami con i corpi intermedi, la galassia associativa che lega i cittadini alle istituzioni e alla politica. Persino in un Paese molto centralista come la Francia, Macron, inciampando nell’ovvietà, s’è accorto tardivamente che avrebbe dovuto coinvolgere i sindaci. Da noi si chiama «disintermediazione» e osserviamo i danni causati dalla linea diretta leader-popolo, bypassando gli ammortizzatori sociali di mezzo. Finché dura, evidentemente: in Italia resiste il cuscinetto del welfare privato e della famiglia, la mobilitazione sulla Rete rappresenta uno sfogatoio che dirotta sul web il ribellismo da piazza e, per certi aspetti, il disagio sociale è stato «parlamentarizzato». Ma per alleviare le sofferenze e per restituire cittadinanza a chi è ai margini serve ricostruire reti e aggregazioni, ricomporre dal basso il tessuto comunitario per una convivenza civile e per ridare un senso alla società aperta. Quel «pensarsi dentro un futuro comune» richiamato dal presidente Mattarella nel messaggio di fine anno.

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