Fare del bene nonostante tutto

IL CONFLITTO. Per comprendere a fondo i grandi conflitti che insanguinano il mondo a volte è istruttivo rileggere qualche pagina di letteratura, oltre che affidarsi alle pur necessarie e irrinunciabili analisi di geopolitica internazionale.

Per esempio, nel 2020 lo scrittore irlandese, naturalizzato americano, Colum McCann pubblicò il sorprendente e inattuale Apeirogon. Narra la storia di riconciliazione tra due padri, l’ebreo Rami Elhanan e il palestinese Bassam Aramin, accomunati dalla morte violenta delle loro figlie.

Smadar Elhanan, 14 anni, venne uccisa nel 1997 in un attentato terroristico mentre Abir Aramin, 10 anni, nel 2007 venne raggiunta da un proiettile vagante sparato da un soldato israeliano. Entrambi i padri avevano infiniti motivi di vendicarsi, farsi giustizia da sé e pretenderla come diritto esclusivo e inappellabile, annientare il nemico, ma hanno preferito percorrere la via impossibile della pacificazione, grazie anche all’organizzazione Parents Circle, mostrando così che solo vestendo i panni dell’altro, ascoltando il suo dolore, si esce dal girone infernale della violenza. Lo storytelling del libro è poliedrico, un’architettura complessa perché complesso è il conflitto che dura da troppo tempo (e che sembra non volere avere fine), per il quale ormai si fatica a rintracciare le origini e le ragioni. Come ogni complessità la questione non è esclusivamente decidere da che parte stare: molto più importante è assumere l’insieme delle visioni contrapposte.

Il vocabolo greco apeirogon, che da il titolo alla ricostruzione letteraria di McCann, suggerisce proprio la dimensione complessa dell’intera vicenda, oggi attualissima: «Un poligono con un numero infinitamente numerabile di lati» come infinite sembrano essere le parole che servono per dare corpo alla morte innocente, al lutto e al dolore lancinante, e infiniti sono i punti di vista dell’immane tragedia che si sta consumando sotto lo sguardo euro-occidentale incapace di darsi strumenti seri per vedere e capire. Leggendo McCann si incrociano espressioni che oggi nessuno vuole sentire ma che da sole basterebbero per illuminare l’intero presente. Il nocciolo sta tutto qui: «Non finirà finché non ci parliamo» e «conosci il tuo nemico, conosci te stesso».

In questi giorni sta girando via social la commovente testimonianza di suor Maria Chiara Ferrari, piccola sorella di Charles de Foucauld, originaria di Paratico che vive a Gerusalemme e in Medioriente da quarant’anni. In un audio inviato dalla città santa prova a proporre una via altra, che ai più potrebbe suonare come molto ingenua, perfino banale. Parafrasando il salmo 62 – «alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» – Maria Chiara afferma: «Alla sofferenza, anche se è grande, non attaccare il cuore, e non per essere indifferenti alle sofferenze degli altri ma per non lasciare che il dolore sommerga tutto della propria umanità e dell’umanità dell’altro». Si tratta di «cercare di trovare insieme lo spiraglio di luce quando la notte è profonda. E quando non si trova facilmente questo spiraglio tenerci per mano, continuare tenacemente a credere che la notte e il buio non prevarranno. Il giorno verrà». Parole improbabili, un po’ naif, «da suore» verrebbe da dire, e invece trasudano di profezia e speranza.

Con grande lucidità quella piccola donna suggerisce di avere cura delle parole perché possono costruire la pace o alimentare i pregiudizi; invita a tenere dentro il cuore la vita di questi due popoli che non vogliono parlarsi e che non hanno mai voluto capirsi: «Non permettiamoci mai più di pensare e di pregare solo per gli israeliani o solo per i palestinesi e nemmeno solo per gli ucraini o solo per i russi». Citando la lezione del gesuita De Certeau – «Mai più l’uno senza l’altro» – rinforza l’appello: «Il rischio della perdita di umanità è reale in questi momenti per gli uni e per gli altri, per chi usa violenza e per chi subisce violenza da troppi anni. Non sono solo i corpi a morire ma le coscienze e quel fondo di umanità che ci permette di riconoscerci della stessa carne». La presenza di queste sorelle nell’oceano dell’odio, della vendetta e della morte è solo una goccia di nulla, un seme caduto in terra, una presenza che non appare. Eppure…

Eppure il 2 ottobre suor Maria Chiara ha incontrato Papa Francesco che ha incoraggiato le sorelle ad essere «una prossimità delicata, una sfida mite alla violenza e all’indifferenza, un grido dolce che ricorda al mondo che tutti sono figli di Dio, dell’Altissimo. Seminate nel mondo perle di tenerezza evangelica». Mi è venuto il mente La peste di Camus dove lo scrittore francese mette in bocca a padre Paneloux le parole di cui avremmo bisogno per non cedere all’odio e scadere nella disumanità. «Bisogna soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare del bene. Ma per il resto bisognava restare, bisognava ammettere lo scandalo» e «non abituarsi alla disperazione». Tentare di fare del bene, nonostante tutto: non credo possiamo altro. Ma è ciò che serve. Adesso, almeno.

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