Fragilità, il coraggio
di parlare di sé stessi

È molto difficile parlare delle proprie fragilità e dei propri limiti, in un mondo impregnato dalla cultura della prestazione e della competizione. Così quel grumo di fatica, quel senso di non farcela che può prendere e che può sfociare in una depressione resta spesso sommerso. Serve un atto di umiltà per farlo emergere. Ha colpito la dichiarazione dell’ex first lady degli Stati Uniti Michelle Obama, 56 anni, che su un social ha parlato della sua leggera depressione, generata dal lockdown per il coronavirus, dagli scontri razziali negli Usa e da una ragione politica, l’«ipocrisia dell’amministrazione Trump».

Uno stato d’animo che le procura risvegli notturni e un senso di pesantezza. A suo modo si tratta di un’ammissione sorprendente, perché resa in pubblico e perché arriva da una persona famosa e benestante. Pensiamo infatti (erroneamente) che il «male di vivere» non colpisca chi ha una vita agiata e priva di preoccupazioni materiali. Ma non è così: non siamo macchine, siamo fatti di carne e non di ferro.

Perfino grandi campioni dello sport hanno ammesso pubblicamente di aver sofferto di depressione: dal portiere della Juventus Gigi Buffon a uno dei più valorosi giocatori nella storia del calcio spagnolo, Andrés Iniesta, al nuotatore australiano Michael Phelps, l’olimpionico con il maggior numero di medaglie, che ha raccontato come a un certo punto della sua vita il suicidio fosse diventato un pensiero fisso. Uomini che sudano quotidianamente per mantenere la perfezione fisica e spingere più in là il livello delle prestazioni. Ma anche in altri ambiti c’è chi è stato colpito dal male di vivere, come il grande attore Vittorio Gassman.

Forza fisica e fama non sono vaccini contro la depressione, che può manifestarsi a vari livelli, fino a generare grandi sofferenze, e che è la seconda causa di morte tra i giovani nel mondo. È un malattia curabile con farmaci e con psicoterapia. Ma ancora oggi la psichiatria è segnalata dallo stigma e i medici di questo ramo sono spesso considerati i «dottori dei matti». Niente di più falso: la fragilità che ci connota se non accettata può diventare fonte di patologie alle quali guardiamo con ignorante senso di superiorità. Il decano degli psichiatri italiani, Eugenio Borgna, e il sociologo Aldo Bonomi hanno scritto a quattro mani un piccolo ma prezioso saggio dal titolo provocatorio: «Elogio della depressione». «Non c’è depressione - scrive Borgna - se non nel contesto di una grande sensibilità e di una stremata fragilità, che ci fanno cogliere le diverse immagini della vita: contrassegnata dalle luci della gioia e della speranza, ma, anche, dalle ombre del dolore e della sofferenza.

La sensibilità e la fragilità sono anche la premessa a ogni conoscenza intuitiva degli altri». Per lo psichiatra piemontese, 90 anni ma lucido come un giovane, «l’indifferenza è la malattia più crudele e inesorabile della vita psichica e in essa siamo prigionieri di un deserto della speranza che non consente alcuna reale comunicazione, alcuna sincera relazione con il mondo delle persone e delle cose». Abbiamo tutti bisogno di una comunità di destino «nella quale si esca dalla nostra individualità, dai confini del nostro egoismo e non si riviva il dolore, la sofferenza altrui come qualcosa che non ci interessi, che non ci appartenga, che nemmeno sfiori la nostra ragione di vita, ma invece, e sinceramente, come qualcosa che ferisca anche noi: come qualcosa cioè che non ci sia estraneo, o indifferente, e nel quale si sia tutti implicati».

Nei giorni più gravi del coronavirus abbiamo riscoperto la nostra fragilità e il bisogno degli altri, delle comunità. Abbassare la guardia, spogliarsi dai veli della finzione per entrare in una vera relazione col prossimo. Da soli non andiamo da nessuna parte.

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