Fraternità e coesione
L’antidoto di Francesco
per salvare l’Europa

A venti giorni dalle elezioni europee più importanti nella storia dell’Unione Papa Francesco ha deciso di viaggiare sul confine meridionale per lanciare un messaggio preciso, senza sottovalutare difficoltà e incognite. Bergoglio ha detto in pratica che l’Europa è indispensabile, unica opportunità per stare insieme agli altri e non contro gli altri, insomma per imparare e implementare la fraternità che nasce dalla ricchezza delle diversità dei popoli, delle culture e delle religioni. Fraternità è la vera parola del cambiamento del continente.

Ma è anche una parola impegnativa, a volte troppo perché comporta processi inediti, che mettono da parte odio e rancore, beni invece che si trovano dappertutto e a buon mercato. Così nel corso della storia solo libertà e uguaglianza sono diventate le parole chiave di ogni cambiamento, ma la fraternità è finita nell’oblio.

È la collera che nella macchina ideologica del consenso giacobino o moderato stimola le trasformazioni e le novità ed è sul furore e la rabbia che oggi si punta per correggere, migliorare, riformare. Per la fraternità non c’è posto, vocabolo indecente nell’Europa degli egoismi. La fraternità assicura la certezza che un altro mondo è possibile e per questo va sbaragliata. Tra Bulgaria e Macedonia del Nord il Papa ha citato più volte il documento di Abu Dhabi dove la fraternità costituisce il centro del nuovo umanesimo globale, e l’ha indicata come unico strumento per cambiare l’Europa. Oggi per l’Unione non è un momento felice. Si preferisce parlare di anomalie e credere che coesione, solidarietà e cooperazione siano zavorre che danneggiano Stati e popoli. Bergoglio non ci sta e ha scelto di andare a dirlo sui confini di quel Gruppo di Visegrad che vuole far diventare l’Europa una sorta di lobby transazionale dove ognuno può negoziare i propri affari, per avere più libertà e uguaglianza a casa propria e meno fraternità a livello globale. Ha osato auspicare la «stretta integrazione dei Balcani» in Europa, idea che forse avrebbe evitato trent’anni fa la guerra con decine di migliaia di morti e milioni di profughi.

Cose semplici, di buonsenso geopolitico, come questa frase: «Tutti gli sforzi che si compiono, affinché le diverse espressioni religiose e le differenti etnie trovino un terreno d’intesa comune nel rispetto della dignità di ogni persona umana e nella conseguente garanzia delle libertà fondamentali, non saranno mai vani, anzi costituiranno la necessaria semina per un futuro di pace e di fecondità». Bergoglio nel Balcani ha smontato quello che è diventato un concetto di uso comune, la balcanizzazione, l’esatto contrario dei valori e dei principi dell’Europa, che tuttavia oggi torna come un fantasma ad inquietare le strade del continente tra spinte nazionalistiche, ragionamenti sui sovranismi, su chi deve essere il primo e chi invece deve sempre e solo stare all’ultimo posto. Nei Balcani i popoli nativi e migranti, come da nessuna altra parte d’Europa, hanno costruito identità ed etnie attraverso lunghissimi processi di trasformazioni e assimilazioni e hanno vissuto non solo uno accanto all’altro, ma dentro l’altro.

Poi la guerra ha fatto crollare il ponte della saggezza e lo scontro ideologico ed etnico ha trasformato una parte cruciale dell’Europa in un museo degli orrori. Siamo sicuri che il vittimismo identitario profuso a piene mani dai sovranisti nella campagna elettorale di oggi non porti l’Europa di nuovo sul lato oscuro e selvaggio della Storia? Ad una manciata di giorni da quello che ormai è un referendum pro o contro l’Europa un Papa venuto dall’Argentina si è accorto del rischio e lo ha detto sulla frontiera più inquieta.

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