Geopolitica
futuro e petrolio

L’instabilità geopolitica è dietro l’angolo. Almeno questo attesta lo studio del prezzo del petrolio negli ultimi decenni. Quando le oscillazioni del valore dell’«oro nero» iniziano a salire sulle montagne russe si registrano spesso eventi epocali, guerre o crisi drammatiche. Il crollo dell’Urss nel 1991, ad esempio, avvenne a conclusione di un lungo periodo in cui le quotazioni del petrolio sprofondarono, privando il bilancio sovietico di entrate vitali. Se si legge il libro «Morte di un impero» di Egor Gajdar, l’economista «mente» della politica choc post comunista, si comprende la gravità del momento.

L’ex vicepremier eltsiniano consigliava ai futuri governanti russi e mondiali di garantirsi dalle oscillazioni di un bene, che quando è ai massimi del valore arricchisce enormemente (e fa anche montare la testa) ma quando è ai minimi provoca depressione. Secondo alcuni esperti americani l’intervento militare sovietico in Afghanistan, iniziato nel dicembre 1979 e conclusosi nel febbraio 1989, fu possibile solo grazie ai copiosi proventi, incamerati da Mosca, quando il prezzo del petrolio andò alle stelle dopo la crisi energetica del 1973.

Per fortuna, seguendo l’esempio norvegese, russi e sauditi, ad esempio - i cui bilanci statali dipendono pesantemente dai profitti dell’«oro nero» - hanno creato dei fondi ad hoc. Questi fondi vengono rimpinguati di dollari – che, per legge, non possono essere spesi dal solito politico spendaccione di turno – nei periodi buoni e servono da «materasso» quando le cose vanno male. Insomma questa è un’assicurazione, che rispetto al passato, si spera, possa fare oggi la differenza. Soprattutto dopo che - superato un primo clamoroso fallimento iniziale nelle trattative - i membri dell’Opec e quelli no (tutti insieme denominati Opec+) si sono accordati per un maxi-taglio di produzione - roba da decine di milioni di barili al giorno -, un record impensabile da raggiungere fino a pochi mesi fa. La situazione attuale è molto particolare e mai gli studiosi hanno avuto un’immaginazione così fervida da ipotizzare per un certo lasso di tempo il blocco contemporaneo dei maggiori Paesi industrializzati.

Nei prossimi sei mesi, perlomeno, pare difficile credere che le economie mondiali possano riprendersi con la bacchetta magica. Conclusione: il petrolio non serve. Ecco perché in America - dove si è realizzata negli ultimi anni la «rivoluzione energetica del gas-petrolio da scisto (shale gas/oil)» - le quotazioni sono negative, ossia i produttori pagano i costi di chi terrà nei serbatoi o nei tanker l’«oro nero». In Europa non si è ancora arrivati a tale situazione.

Il problema è che sono troppi al mondo i Paesi-produttori a dipendere dalle entrate del petrolio ed uno di loro, il Venezuela, è già in bancarotta. Nel prossimo futuro numerosi Stati non avranno più i mezzi per finanziare le politiche sociali e la litigiosità interna ed esterna è destinata ad aumentare esponenzialmente.

La domanda è: cosa succederà adesso in Messico, Nigeria, Angola, Iran e nei Paesi arabi? La Brexit con meno proventi garantiti dal Brent sarà certamente più dispendiosa. La stessa ricca Norvegia non è al riparo da questa burrasca. Il rischio che la pandemia provochi una depressione economica di lunga durata (o forse qualcosa di peggio) è dietro l’angolo. Ecco perché servono oggi leader internazionali dalle ampie vedute, solidali tra loro e non litigiosi o egoisti, a gestire un passaggio cruciale.

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