
(Foto di ansa)
ITALIA. All’Assemblea nazionale di Confindustria i toni del presidente degli imprenditori, Emanuele Orsini, sono stati a tratti drammatici. Come quando ha evocato quella che ha definito «l’amara verità», cioè «il rischio concreto di deindustrializzazione» dell’Europa.
E a tratti sono stati perentori, come quando ha detto che i sovraccosti energetici sono «un vero dramma che si compie ogni giorno per le famiglie, le imprese e l’Italia intera». Gli accenti della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dallo stesso palco di Bologna, sono stati invece più rassicuranti: pur non negando il momento molto complesso che stiamo attraversando, ha sottolineato come l’attuale fase politica nazionale garantisca stabilità al sistema e come il Paese abbia guadagnato in credibilità sul piano internazionale. D’altronde non è poi così anomalo che un presidente degli industriali e un capo di governo presentino i loro messaggi con cifre stilistiche tanto diverse. Piuttosto, dalla giornata bolognese di ieri, può essere utile cercare punti di contatto e differenze tra le due agende programmatiche.
Meloni ha rilanciato criticando «un approccio ideologico alla transizione energetica che ha procurato danni enormi alla sostenibilità economica e sociale delle nostre società, senza peraltro produrre i vantaggi ambientali che erano stati decantati». Sintonia esplicita, inoltre, sull’appello di Orsini a «un patto nuovo tra tutti noi, forze politiche e sociali»
Meloni innanzitutto ha raccolto positivamente l’invito lanciato da Orsini a lavorare a un «piano industriale straordinario per l’Italia e l’Europa». Vaste programme, si potrebbe affermare. Tuttavia l’enfasi sull’industria è comunque spia di un idem sentire che non a caso si intravvede anche nella critica, arrivata da entrambi, rispetto al modello europeo di transizione ecologica. Orsini ha parlato di una «pazzia» che genera paradossi come quello per cui i costruttori europei di auto si indebitano per acquistare le quote di CO2 da aziende extra-europee come Byd o Tesla. Meloni ha rilanciato criticando «un approccio ideologico alla transizione energetica che ha procurato danni enormi alla sostenibilità economica e sociale delle nostre società, senza peraltro produrre i vantaggi ambientali che erano stati decantati». Sintonia esplicita, inoltre, sull’appello di Orsini a «un patto nuovo tra tutti noi, forze politiche e sociali». Un patto che però, se intende sopravvivere ai titoli di giornale odierni, dovrà essere riempito di contenuti. Il Presidente di Confindustria, per esempio, è tornato a indicare l’obiettivo di legare salari e produttività per far crescere entrambi. Obiettivo sacrosanto. Ma quante sono le possibilità che tutte le organizzazioni sindacali accettino una strada simile? E quali sono gli strumenti che ha nelle sue mani il Governo per incentivare tale percorso se la politica tutta non si mostra convinta e compatta almeno su questo tema?
Per facilitare gli investimenti di cui ha bisogno il Paese, ha detto Orsini, «servono procedure più semplici, regole certe e tempi più rapidi. In un momento complicato come questo abbiamo bisogno di convincere i nostri imprenditori a investire»
Infine c’è un altro dossier sul quale la concordia di ieri rischia di essere soltanto apparente, quello della qualità delle regole della nostra economia. Per facilitare gli investimenti di cui ha bisogno il Paese, ha detto Orsini, «servono procedure più semplici, regole certe e tempi più rapidi. In un momento complicato come questo abbiamo bisogno di convincere i nostri imprenditori a investire». La replica di Meloni: «Caro Presidente, voglio dirle che ci siamo, anche sulle semplificazioni sulle quali, ha ragione, penso che si debba procedere in modo più spedito. Mi prendo personalmente l’impegno a occuparmene». Eppure in Italia si registra da qualche tempo una tendenza di segno opposto: si va verso un crescente interventismo pubblico e regolatorio non sempre giustificato. Secondo alcuni dati appena resi noti da Istat, nel 2022 per esempio è aumentato il numero delle imprese a partecipazione pubblica attive nei settori dell’industria e dei servizi, pur diminuendo il numero degli addetti. Questi numeri – ha osservato l’Istituto Bruno Leoni - «mostrano, in primo luogo, quanto sia ampia e profonda la presenza dello Stato nella nostra economia; e, secondariamente, che la partecipazione pubblica diretta coinvolge imprese sempre più piccole». La politica, tutta, è disposta a rinunciare a rendite di potere e bacini di (presunto) consenso in nome di una crescita più equa e dinamica? Qui si misurerà la distanza tra palco e realtà.
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