Grillini senza pace
Tira aria di naufragio

Non c’è pace tra i grillini. Tra Luigi Di Maio che «lascia» la poltrona di capo politico ma «non molla», e dunque vuole tornare in sella, e tutti i suoi numerosi avversari interni è una continua lotta di trincea. In ballo c’è la leadership del Movimento la cui crisi elettorale ha ringalluzzito la cosiddetta «ala movimentista» dei pentastellati contro il folto partito governista. Quelli che pensano che la salvezza stia nell’abbandonare il Pd e riprendere gli antichi riti del «Vaffa» che hanno portato tanta fortuna.

Almeno fino a marzo 2018 quando arrivò il trionfo elettorale, il trenta e passa per cento dei voti, la corona d’alloro di partito di maggioranza relativa del Parlamento, la maggiore responsabilità di governo esercitata attraverso un ircocervo tecnico-politico come Giuseppe Conte, fino alla vigilia sconosciuto professore di Diritto e avvocato di ricche parcelle. Da allora, è stato una corsa verso il basso: ogni elezione regionale o amministrativa è stata una sconfitta. Al punto che Di Maio, per evitare che gli si addossasse l’ennesima botta, quella in Emilia Romagna - rivelatasi poi una vera tragedia del 3 per cento dei voti - ha appunto annunciato la propria volontà di «lasciare» ma anche di «non mollare».

La sua speranza è di tornare sugli scudi, di essere richiamato. Nel frattempo ha piazzato i fedelissimi nelle posizioni chiave, a cominciare dal reggente Vito Crimi che comunque, forse per decoro personale, prova a muoversi da leader: «Decido io», va ripetendo sperando che gli si creda.

Nell’interregno emergono le speranze di chi vorrebbe provare a diventare il numero uno. Come Paola Taverna, per esempio, che predica il ritorno alle origini. Ma la Taverna non ha fatto in tempo a proporre una manifestazione di piazza in difesa del taglio dei vitalizi, che subito Di Maio le ha scippato la scena e si è impadronito dell’iniziativa: «Sarò con voi…». Il ministro degli Esteri che va in piazza contro «il sistema», lui che è il capo della Farnesina. Ma tant’è. L’occasione è troppo ghiotta: l’orientamento della commissione senatoriale di dare ragione ai 700 ex parlamentari che hanno fatto ricorso contro il taglio alle loro pensioni è un modo facilissimo - visto dal lato del M5S – per riprendersi una battaglia di sempre, forse la più gradita all’elettorato grillino e non solo, e provare a tornare credibilmente alla lotta contro tutto e contro tutti. Di Maio, che controlla ancora i mezzi social del Movimento, ha lestamente messo il cappello sopra un’idea altrui. E tanto è bastato a rimettere in ombra la Taverna.

Ma, al di là della lotta interna per la poltrona numero uno, Di Maio e tutti gli altri si aggrappano alle bandiere dei tempi d’oro perché non sanno a che altro santo votarsi. Continuare a governare con il Pd, sapendo che questo porta via i voti degli elettori «puristi»? Oppure rompere tutto il giocattolo tornando all’opposizione? Ipotesi quest’ultima assai poco gradita a ministri, viceministri e sottosegretari che hanno fatto ormai l’abitudine al potere e alle sue lusinghe. Ma c’è un’altra domanda: si potrebbe tornare con la Lega? L’ala destra del movimento non nasconde di preferire una simile strada. Gianluigi Paragone per averlo detto chiaro e tondo è stato sbattuto fuori e ancora ulula alla luna. Paragone sta aspettando che torni Alessandro Di Battista dal suo ennesimo viaggio esotico (ora è in Iran) perché spera con lui di mettere in moto un meccanismo che escluda definitivamente Di Maio: i sondaggi dicono che se il senatore espulso e il più popolare dei beniamini di Grillo si mettessero insieme potrebbero contare su una dota elettorale superiore al 5 per cento, più di Renzi per intenderci. Insomma nessuno dei capi grillini o dei parlamentari sa cosa fare per evitare il naufragio del Movimento. «Per il marinaio che non sa la rotta, tutti i venti non sono buoni», diceva il vecchio Seneca.

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