Guerra all’Iran
Trump cerca voti

Chissà se dopo la clamorosa eliminazione del generale iraniano Qassem Soleimani qualcuno racconterà ancora la barzelletta che vuole gli Usa di Donald Trump intenti a disimpegnarsi dal Medio Oriente? L’attacco con i droni, condotto in un Paese amico come l’Iraq, ha avuto un’evidente funzione dimostrativa. Il messaggio è: questa è casa nostra, qui noi possiamo fare ciò che vogliamo, nessuno che ci ostacoli può sentirsi al sicuro. Solo il risentimento anti-Trump che prolifera nelle province dell’impero americano poteva far prendere lucciole per lanterne, perché questo atto di guerra contro l’Iran è il culmine di una politica che invece, da parte della Casa Bianca, è stata piuttosto coerente.

Pensiamoci per un attimo. Trump fin da subito ha rinsaldato l’alleanza tra Usa, Arabia Saudita e Israele in chiave anti-Iran. A Israele (quello di Netanyahu, per essere più precisi) ha regalato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale indivisibile dello Stato ebraico e del Golan come territorio israeliano. A dispetto del diritto internazionale, insomma, ha trasformato i territori occupati in proprietà di Israele. Poi ha prodotto un «piano di pace» che in sostanza prefigura l’annichilimento dei palestinesi. All’Arabia Saudita ha fornito armi, copertura politica e militare totale (dai bombardamenti nello Yemen all’assassinio del giornalista Kashoggi) e soldati (quasi 3 mila in più nel solo 2019).

Più in generale, Trump ha aumentato di oltre il 30% il numero dei soldati americani di stanza in Medio Oriente, dove gli Usa hanno basi militari permanenti in sette Paesi. E le forze speciali a stelle e strisce ancora controllano i pozzi di petrolio della Siria. Per non parlare delle sanzioni contro la Siria e contro l’Iran, entrato nel mirino già all’inizio della presidenza. E ora, dopo aver ereditato da Barack Obama l’impegno in Siria con la relativa sconfitta degli interessi americani, Trump punta al bersaglio grosso, all’Iran, sfidandolo a scendere in guerra. La motivazione offerta dal Pentagono, infatti, è quasi ridicola. «Suleimani - hanno scritto i generali Usa in un comunicato ufficiale - stava progettando attacchi contro diplomatici e militari americani in Iraq e in tutta la regione». Proprio la cosa che Suleimani, che era tutto tranne che uno stupido, non avrebbe mai fatto, e che infatti non aveva mai fatto nell’ormai lunga storia del conflitto tra Usa e Iran.

Gli Usa di Trump sono in Medio Oriente per restarci. Sono forti, ben insediati, e hanno alleati ricchi e potenti. Perché dovrebbero andarsene? L’avremmo capito da tempo se fossimo attenti a ciò che Trump fa e non solo a ciò che Trump twitta. Tanto più che adesso il presidente ha un’altra ottima ragione per proseguire nella sua politica: la campagna elettorale. L’elettorato repubblicano ama l’America pronta a menare le mani per difendere i propri valori e il proprio ruolo nel mondo. E non solo quello: è facile immaginare come possono aver reagito all’uccisione di Suleimani i gruppi americani di pressione pro-Israele, che radunano anche elettori del campo democratico. Trump ora si atteggia a patriota, anche nel tentativo di trasformare i democratici (che non si sono mai negati guerre e guerricciole ma ora criticano l’attacco) e il loro progetto di impeachment in un gesto antipatriottico. Se poi l’Iran dovesse in qualche modo reagire, la campagna elettorale diventerebbe una specie di referendum tra chi vuole difendere l’America e chi è disposto ad arrendersi.

Anche in questo caso, l’antitrumpismo di maniera vede tutto come un avventurismo improvvisato e privo di visione. La sensazione, invece, è che si tratti di una strategia, cinica e crudele ma razionale. E che per metterla in atto Trump, o chi per esso, stia anche passando all’incasso di una serie di crediti: l’uccisione di Al Baghdadi, quella di Suleimani…si sente odore di servizi segreti di altri Paesi, in questi colpi a sorpresa.

I prossimi mesi, e soprattutto le decisioni di Alì Khamenei e degli ayatollah che reggono l’Iran, ci diranno se tale strategia funzionerà. Nel frattempo dobbiamo mestamente riconoscere che la lezione del massacro siriano viene ignorata dai potenti del mondo, e che il Medio Oriente di nuovo si affaccia sull’abisso di una guerra per procura. Sullo sfondo la Libia, dove la Turchia sta per riversare, in aiuto al governo di Fayez al-Sarraj contro Francia, Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti che invece appoggiano il generale Haftar, i miliziani islamisti che occupano la provincia siriana di Idlib. Benvenuti nel 2020.

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