I cambi di casacca minano la fiducia

In ogni democrazia il principio dell’universalità del diritto di voto è uno dei pilastri. Vale sia per chi esercita il diritto di voto, quanto per chi (salvo impedimenti previsti dell’ordinamento) si prefigge di essere eletto. Lo ricordava, giorni fa, con la sua ammirevole compostezza, Lucio Caracciolo, sostenendo che il fatto che un «bibitaro» potesse divenire ministro degli Affari esteri non è affatto uno scandalo, ma costituisce un elemento sostanziale delle vere democrazie.

Questo principio dovrebbe essere placidamente assunto come ovvio. Che poi in Parlamento vengano eletti cittadini privi di qualsiasi conoscenza delle regole basilari, necessarie per l’esercizio del loro mandato è questione che riguarda l’elettorato. In Italia il fenomeno ha assunto vette inusuali e, in qualche modo, impreviste con il trionfo elettorale del Movimento Cinque stelle. Da quel momento il problema avrebbe dovuto interessare quella forza politica, chiamata a gestire le sorti del Paese con persone sprovviste delle competenze necessarie e dell’esperienza per governare. Ad essi serviva un bagaglio che si può riassumere nella riflessione di Max Weber: la politica come professione. Quasi nessuno di essi poteva dirsene munito e i progressi di alcuni non sono riusciti a trasformare un movimento di protesta «antisistema» in una forza politica attrezzata a governare. La sintesi forza «di lotta e di governo» è rimasta una mera utopia, un inutile slogan.

La mossa di Luigi Di Maio va inquadrata in questo tormentato evolversi del M5S. Fondare una nuova forza politica ha il sapore dell’esigenza di essere rieletto in Parlamento. Proposito legittimo, ma che ha creato scalpore, poiché è palesemente sembrato legato a un interesse personale, non potendosi candidare nel Movimento in base alla norma statutaria che vieta un terzo mandato. Al di là della vicenda specifica, si è aperto un dibattito sul fenomeno del «cambio di casacca» da parte dei parlamentari. Oltre 300, tra deputati e senatori, che sono transitati da un partito all’altro, passando a volte anche tra più partiti. Da più parti, si è parlato di «trasformismo», dei tempi di Agostino Depretis negli anni ’70 dell’Ottocento. Ma ciò risale al periodo nel quale il diritto di voto era ristrettissimo (2% fino al 1882; 8% circa fino alla legge del 1912 sul suffragio universale maschile).

In ogni caso la vastità del fenomeno dei cambi di casacca tra i parlamentari è oggettivamente preoccupante, perché sta producendo una crescente sfiducia nelle istituzioni, che si traduce in astensione elettorale. Dell’argomento si stanno occupando sia il Senato, sia la Camera, predisponendo progetti di legge che dovranno essere approvati a maggioranza assoluta dei parlamentari. Senza poter qui entrare nel merito di proposte che dovranno essere attentamente vagliate e diventare regole «interne» alle Camere, si deve dare atto al Parlamento di avere imboccato l’unica via percorribile. La massiccia «transumanza» avvenuta nell’attuale Parlamento denota un’evidente anomalia e una obiettiva forzatura del divieto di mandato operativo, producendo notevoli difficoltà nella governabilità del Paese e sfarinando, agli occhi dei cittadini, la credibilità delle forze politiche. Risultato non ultimo, in termini politico-costituzionali, la permanenza di governi instabili, costretti a patteggiamenti continui su ogni singolo provvedimento da presentare in Parlamento.

L’altra strada – invocata da alcuni – di abrogare dalla Costituzione il «divieto del vincolo di mandato» rischia di essere un rimedio peggiore del male. La norma dell’articolo 67 voluta dai Costituenti si basa sul presupposto che il singolo parlamentare rappresenta l’intera Nazione e non il singolo partito e compie le sue scelte non in base ad un «mandato imperativo» imposto dalla forza politica nella quale si milita. Si tratta – secondo la norma costituzionale – di assicurare libertà di pensiero e di espressione a coloro che i cittadini hanno scelto con le elezioni. L’unico vincolo, di particolare rilevanza, è quello della responsabilità politica dell’agire del singolo parlamentare, il quale dovrebbe richiamarsi al principio kantiano dell’etica della responsabilità.

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