I deficit degli allievi
Le colpe della scuola

Mercoledì scorso sono stati presentati i risultati delle prove nazionali dell’Invalsi, l’Istituto che valuta i risultati del nostro sistema educativo d’istruzione e di formazione. Come noto, sono prove periodiche e sistematiche che hanno lo scopo di verificare, in determinate classi del 1° e del 2° ciclo (2ª e 5ª primaria, 3ª secondaria di 1° grado, 2ª e 5ª secondaria di 2° grado) di tutte le scuole del nostro Paese, il livello di acquisizione di alcune conoscenze e abilità previste dagli ordinamenti rispetto agli insegnamenti di italiano, matematica e inglese.

I risultati ottenuti definiscono a livello nazionale standard di acquisizione che, anche se non rappresentano l’unico indicatore degli apprendimenti realizzati, rendono possibile un doppio livello di analisi, che permette di trarre il massimo vantaggio possibile da questo tipo di valutazione.

Il primo livello di analisi è quello proprio del decisore politico che dai dati ottenuti (non solo quest’anno ma in un numero significativo di anni) può far discendere sia la progettazione di interventi strutturali da mettere in campo per correggere, anche a lungo termine, le criticità emerse, sia la verifica della validità delle decisioni assunte in precedenza. Che cosa significa, dunque, per chi ha responsabilità politiche, sapere che solo il 65% degli studenti al termine del 1° e del 2° ciclo superiore possiede conoscenze e abilità che permettono una buona comprensione di un testo scritto in lingua italiana? Occorre certo sapere perché il restante 35% non le ha acquisite, così come circa il 40% non raggiunge risultati sufficienti rispetto alla matematica, nei medesimi livelli scolastici.

Urgono, poi, analisi e risposte anche a queste domande: perché un divario crescente caratterizza i risultati tra il Nord e il Sud del Paese man mano che si procede nei gradi di scuola, quando da anni i risultati dei test (per esempio di italiano) somministrati nella classe seconda primaria restituiscono esiti molto simili in tutto il Paese, senza significative differenze tra le diverse zone? E che dire dei risultati di lingua inglese che danno, alla fine della secondaria di 2° grado e rispetto al livello di apprendimento B2 stabilito dalle politiche Ue per tutti i Paesi membri, risultati positivi di lettura al 51,8% e di ascolto al 35%? Si possono affrontare le nuove realtà del mondo attuale, professionale e personale, così impreparati dal punto di vista linguistico, dopo 13 anni di scuola? Offro un piccolo spunto di riflessione rispetto a quest’ultima domanda, ricordando una personale esperienza: primi anni ’90, come neo-preside di scuola media partecipo, a Milano, ad una conferenza di servizio regionale in cui si discute dell’emergente problema dell’insegnamento della lingua inglese e al suo apprendimento.

La relatrice è un’ispettrice di lingua inglese, competente ed apprezzata, che non usa mezzi termini: finché la scuola italiana continuerà ad insegnare le lingue straniere solo ed esclusivamente all’interno della classe anagrafica, pensando che il solo fatto di avere la stessa età comporti lo stesso tipo di apprendimento, indipendentemente dalle attitudini, dalle esperienze, dal background individuale e continuerà a sottacere la dimensione funzionale della lingua ed il suo uso competente, i risultati che otterrà non potranno che essere inadeguati alle richieste del mondo attuale. Sono passati quasi trent’anni, l’insegnamento dell’inglese è stato introdotto a sistema fin dalla scuola primaria, perché i nostri ragazzi non imparano l’inglese? Non occorrerà, forse, affrontare in modo efficace il nodo della formazione in ingresso e in servizio dei docenti, lasciando finalmente da parte logiche buro-sindacali che inducono a diminuire sempre di più il tempo di preparazione pedagogico-didattica richiesto a chi vuole entrare nella scuola? Non sarà il caso di ripensare strumenti più efficaci dei concorsi gestiti a livello ministeriale (con il ginepraio di ricorsi amministrativi che portano con sé) per scegliere i docenti rispetto alla padronanza didattica e non solo del sapere disciplinare acquisito? Sarà finalmente compreso come solo dirigenti scolastici competenti e capaci di gestire in modo autonomo la scuola (l’auspicio è che in questa direzione si muova il concorso di reclutamento oggi ripreso), così come di rendicontare in modo sostanziale le azioni intraprese e l’impiego delle risorse professionali e finanziarie utilizzate, possono prendere seriamente in mano la questione dei livelli di apprendimento più o meno raggiunti in una determinata scuola?

Il secondo livello di analisi dei risultati delle prove Invalsi, infatti, avviene a livello locale, giacché ciascuna istituzione scolastica riceve il dettaglio dei risultati che la riguardano ed è il dirigente scolastico che, con il suo Collegio dei docenti, ha la responsabilità di farne un’analisi efficace da cui scaturiscano le necessarie azioni di miglioramento o di mantenimento per l’apprendimento degli allievi di quella stessa scuola, fermo restando che questo tipo di valutazione esterna deve necessariamente essere incrociata con la valutazione interna, esclusivamente affidata alla responsabilità dei docenti che conoscono direttamente i bisogni formativi dei propri allievi. Per essere esplicita: l’istituto comprensivo frequentato dai ragazzi della periferia problematica di una grande città può verosimilmente avere risultati Invalsi insufficienti, ma è attraverso l’analisi diretta dei processi formativi messi in atto dai docenti di questa stessa istituzione che risulta possibile capire se la situazione può essere migliorata e come, se sono state messe in campo azioni educative mirate volte a recuperare gli aspetti di criticità di questi ragazzi.

Imputare, come spesso accade, la causa dei risultati disciplinari insufficienti esclusivamente alle situazioni socio-economiche in cui versano le famiglie degli allievi significa rassegnarsi al fatto che la nostra scuola non sia più in grado, come richiesto dalla Costituzione, di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana», che abbia perso la possibilità di essere promotrice di miglioramento personale e sociale, come invece è stata e come deve continuare ad essere in quanto scuola di un Paese democratico. Non cadono certo in questa semplicistica giustificazione il dirigente scolastico e i docenti che abbiano assunto con responsabilità il compito di trovare tutte le strade che rendono possibile la realizzazione di una scuola flessibile, capace di rispondere ai diversi bisogni formativi con strumenti e metodologie mirate che permettano di garantire a ciascuno dei nostri (troppo) pochi giovani non solo l’acquisizione di quei saperi indispensabili per delineare e costruire un progetto di vita, ma anche il loro utilizzo competente che permette di fare scelte «buone» per sé e per gli altri.

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