I giovani, la società
e il vuoto di valori

C’è un legame tra i ragazzi che vivono fuori dal mondo, gli «hikikomori» nostrani, termine giapponese che definisce gli adolescenti isolati e dipendenti dal computer, e gli appartenenti alle baby gang, fenomeno in aumento in tutta la Penisola e naturalmente anche da noi? Quel legame c’è e si chiama vuoto di valori. Un vuoto che si unisce alle tensioni tipiche di un’età difficilissima e complicata, in cui si va alla ricerca di sé e quel sé non lo si è ancora trovato. L’ingresso nella preadolescenza – come spiegano gli psicoterapeuti - porta ad una velocissima trasformazione dei processi di funzionamento mentale. Chi è genitore lo sa bene: il proprio figlio subisce un mutamento rapidissimo, in cui rischia di trovarsi in balia di emozioni intensissime e perfino violente, con estremi pericolosi, in cui si perde serenità, equilibrio, razionalità, educazione, rispetto verso sé stessi e gli altri, e spesso il primo bersaglio sono i genitori.

Nella testa dei nostri ragazzi c’è un pianeta nuovo che aiuta a crescere, ma spesso a costo di travagli dolorosi. Il contraccolpo, per molti, è il rifugiarsi in sé stessi, vivere nella propria camera, nel proprio mondo, nel proprio universo, affidandosi a un computer o a uno smartphone (mai levarglielo per castigo, almeno io non lo farei mai, perderebbero la loro bussola, i loro punti di riferimento, a meno che non sia in corso una crisi molto grave, come la dipendenza e i contatti con cattive compagnie). Il Pc diviene una sorta di universo parallelo, in cui si viene sottoposti a iperstimolazioni di ogni tipo. I nostri figli possono imbattersi - sia nel reale che nel virtuale, non c’è nessuna differenza tra il Web e la strada – in immagini, contatti, esperienze capaci di alterare il proprio fragile equilibrio psichico. Ma come è noto Internet è terra di nessuno, in alcuni casi è peggio della strada, si possono incontrare molti Lucignolo e «omini di burro» pronti a portarti nel Paese dei balocchi. Spiega lo psicoterapeuta Alberto Pellai: « Spesso i gesti autolesivi dei giovanissimi sono messi in atto sulla spinta di un impulso irrefrenabile, poco pensati ed elaborati. Il ragazzo stesso – quando sopravvive – fatica a spiegarsi la ragione che ha mosso un gesto che dichiara di aver “agito” ma non “pensato”».

Il caso del preadolescente di Napoli che si è tolto la vita è sintomatico nella sua patologia. Ancora non è chiaro quel che è successo: forse ha incontrato sulla sua strada digitale un «uomo nero», qualche cyberbullo che lo ha portato verso la tragedia.

Quanto alle baby gang, è forse il caso in cui le fragilità si tramutano in violenza, forti della tribù deteriorata in branco e del vuoto di valori che spesso e volentieri fa da collante. Il ruolo dei genitori è senza dubbio fondamentale, tenendo conto che i figli, più che seguire i consigli, seguono l’esempio dei padri e delle madri. Un comportamento corretto e una crescita armoniosa – lontana dalla violenza ma ammantata di gioia e di rispetto – non significano certo la rinuncia a una vita allegra, brillante e per certi aspetti – perché no? – moderatamente trasgressiva, quanto meno ribelle. Ce lo insegna un santo del nostro tempo, Carlo Acutis, il ragazzo morto di leucemia che verrà beatificato il 10 ottobre prossimo. Così come Pier Giorgio Frassati, il santo dei giovani (fondatore della «compagnia dei tipi loschi») questo ragazzo milanese era pieno di vita e aveva mille interessi, dal sassofono al calcio, dalle amicizie al computer. Il che non gli impediva di nutrire una fede acerba e profonda. Definì Gesù «la mia autostrada verso il cielo». Genitori e figli dovrebbero ispirarsi un po’ a questo ragazzo semplice, intelligente e pieno di vita che ora siede nella corona dei beati.

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