I messaggi della prova di forza di Pechino

MONDO. I numeri sono impressionanti. Per due giorni 19 navi da battaglia, 16 mezzi della guardia costiera e 49 aerei da guerra della Cina hanno circondato, e di fatto isolato dal resto del mondo, l’isola di Taiwan con un’esercitazione militare che, per la sua ampiezza e il suo carattere minaccioso, non ha eguali nella storia recente dei due Paesi.

Quel che bisogna chiedersi, a questo punto, è fino a dove voglia spingersi Pechino e perché abbia deciso questo passo proprio adesso. È più facile rispondere alla seconda domanda. Il 20 maggio è iniziato ufficialmente il mandato presidenziale di Lai Ching-te, meglio noto come William Lai, sostenitore del progressivo avvicinamento di Taiwan all’Occidente e convinto nazionalista, anche se la sua posizione ufficiale non è a favore della proclamazione della Repubblica di Taiwan ma per il mantenimento dello status quo formatosi a partire dal 1949, ovvero della situazione in cui la stragrande maggioranza dei Paesi tratta l’isola come uno Stato autonomo senza però riconoscerla come tale.

L’elezione di Lai fu accompagnata da critiche e raffiche di insulti da parte delle autorità della Repubblica popolare cinese (allo stato attuale Taiwan dovrebbe invece essere chiamata Repubblica di Cina). E questa esercitazione è una sorta di commento politico-militare al suo insediamento e, forse, ai suoi inconfessati desideri. Oltre che un tentativo di intimorire e dividere i taiwanesi, che hanno scelto Lai come presidente senza però dare al suo partito, il Partito progressista democratico, la maggioranza in Parlamento.

La prima domanda, invece, è più complessa. Davvero Pechino potrebbe pensare a un colpo di mano militare per occupare e annettere Taiwan, che da sempre considera nulla più che una provincia separatista? D’istinto verrebbe da rispondere di no. Non è nello stile della Cina, e meno ancora in quello di Xi Jinping, usare le armi, scendere sul campo di battaglia. Anche perché le forze armate cinesi non si cimentano davvero da molti decenni e la loro reale efficienza è sconosciuta. E poi, in caso di attacco a Taiwan, dovrebbe di certo vedersela con la potenza marittima degli Usa e, di certo, con la coalizione di Paesi alleati che la Casa Bianca riuscirebbe a mettere in campo.

Per finire, la Cina ha tratto utili lezioni dal conflitto tra Russia e Ucraina. Non ha alcuna voglia di impegolarsi in un conflitto di lunga durata che finirebbe per logorarla oltre misura in una fase molto delicata per l’economia e la stabilità sociale. Xi Jinping ha preso atto di un certo rallentamento della crescita (per il 2024 è stimato «solo» un più 5%) e della necessità di avviare una sorta di rivoluzione tecnologica per riqualificare la produzione industriale. Non è un caso se per il 2024 è previsto un aumento degli investimenti in scienza e tecnologia del 10%. La Russia in guerra oggi ha una Cina presso cui cercare sostegno, domani la Cina non avrebbe nessuno a cui appoggiarsi.

Questa ostentata dimostrazione di forze nei confronti di Taiwan, quindi, sembra soprattutto una dichiarazione d’intenti verso i taiwanesi (sappiate che non rinunceremo mai all’idea della riunificazione) e un monito agli Usa: siamo pronti anche allo scontro. Ma la partita si giocherà sui tavoli della politica. Per dirla in modo brutale: potremmo mollare la Russia se ci date Taiwan. O viceversa. In un certo senso, Usa, Cina e Russia sono tornate agli anni Settanta, quando americani e sovietici si contendevano la Cina per usarla contro gli altri. Oggi sono la Russia e Taiwan a fare da terzi incomodi.

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