I nostri anziani
La nostra storia

Cosa stiamo perdendo con la morte di decine di anziani, per o con il coronavirus? La distinzione è utile a rimarcare come i decessi possono avvenire avendo la pandemia come prima causa o come patologia che si affianca ad altre, determinando la perdita della vita. Ma non è l’aspetto medico che vogliamo rimarcare qui. L’opinione pubblica non solo bergamasca e media nazionale ed esteri sono rimasti colpiti dalla quantità di pagine di necrologie che pubblichiamo da giorni, evidenza del numero di morti in impressionante crescita.

Ma sfuggono forse le pagine di cronaca locale, nelle quali raccontiamo la biografia di alcuni di questi anziani, cioè persone sopra i 65 anni secondo la definizione classica, che recentemente ha alzato l’asticella ai 75. Narrazioni che rispondono alla domanda iniziale: di quale patrimonio umano e sociale la nostra provincia viene privata?

Le biografie danno la risposta: un capitale enorme. Imprenditori partiti dal niente, che hanno dato vita a piccole ditte poi diventate importanti aziende, creando lavoro per centinaia di persone; ex sindaci e in generale amministratori locali che hanno dedicato gran parte del loro tempo libero ad accrescere il bene comune dei paesi, con una passione vera e sana per la politica, senza guadagni ma ricavandone, insieme ai grattacapi, soddisfazioni personali per le cose fatte e la gratitudine dei cittadini, quando era ancora in voga e non dominavano lo scontento e il rancore; e poi suore e tanti sacerdoti, che sono stati parroci in diverse comunità, per amore alla Chiesa e a Cristo, dove hanno servito i fedeli non solo celebrando i riti, ma anche ascoltando le pene di persone alle quali hanno cercato di dare risposta; anche missionari, chi per ben 57 anni in Brasile e chi per 38 in Zaire (ora Repubblica democratica del Congo).

Ma tra le vittime ci sono pure fondatori di associazioni locali di volontariato o chi ha operato per tanti anni in enti non profit del paese rispondendo alle necessità più svariate. E ancora un fotografo che per decenni ha immortalato la popolazione del comune, i momenti gioiosi e quelli tristi, commercianti titolari di locali punto di riferimento nei rispettivi paesi e dirigenti sportivi che hanno destinato tempo libero a favorire la pratica dei giovani, allevando anche chi poi è diventato un bravo professionista. Non mancano alpini, che, nello spirito delle penne nere, hanno risposto ad emergenze vicine e lontane. Per una macabra ironia della sorte, sono morti proprio a causa di un’emergenza, questa volta sanitaria.

Appartenevano tutti a generazioni nate durante la Seconda guerra mondiale o appena dopo, forgiate nelle ristrettezze economiche dell’epoca e abituate al sacrificio. In gioventù hanno vissuto la rinascita dell’Italia, gli ideali politici e sociali, il senso di appartenenza a un comune destino. Hanno costruito la Bergamasca, il suo benessere, testimoniando la laboriosità e l’amore per la propria terra, con un’attenzione rivolta pure al mondo. Anche gli anziani ai quali non abbiamo dedicato articoli in cronaca, ma comparsi solo sulle necrologie, sono stati partecipi di questa avventura, facendo il proprio lavoro e creando una famiglia. E non è poco. Portatori di conoscenze, competenze ed esperienze che le generazioni contemporanee non hanno sempre saputo valorizzare attraverso la trasmissione orale e pratica di quei saperi. Oggi i nonni sono considerati a ragione colonne del welfare familiare, accudendo i nipoti e permettendo a figlie e figli, soprattutto in tempi di pesante crisi economica, di far quadrare i conti. Ma sono anche artefici e custodi di un pezzo importante della storia della Bergamasca, di una saggezza mischiata ai calli sulle mani. Qualità che le comunità dovrebbero ricordare e mettere a frutto.

Quando si sono diffusi i primi contagi, è capitato di sentire o di leggere sui social la frase, per altro non vera, «ma muoiono solo i vecchi», come per mettere le distanze tra il coronavirus e la morte, relativizzando il pericolo con un cinismo giovanilista. Sabato scorso Emanuele Macaluso, storico ex dirigente del Pci, avrebbe voluto festeggiare il suo compleanno in un ristorante con una cinquantina di amici, ma è chiuso in casa per la pandemia. «Ogni tanto mi affaccio dalla finestra - ha raccontato in un’intervista a Repubblica - qui al Testaccio e butto lo sguardo su piazza Santa Maria Liberatrice privata di voci e rumori. Non ci sono più i bambini che giocano né gli anziani che passeggiano. Regna un silenzio assoluto. Stento a crederci. Mi prende una forma di angoscia.

Ho avuto una lunghissima vita, piena di grandi gioie e di grandi dolori, ma queste settimane mi sembrano tra le più terribili». Verso la fine del colloquio Macaluso se la prende con il primo ministro britannico che inizialmente aveva sposato la teoria dell’«immunità di gregge» (far circolare il coronavirus fino a che il 60-70% della popolazione non sviluppa l’immunità, a danno dei più deboli e degli anziani). «Johnson è un bullo e il suo è un cinismo spaventoso. Come quelli che dicono “è morto, ma era vecchio”. Capisco che tutti abbiamo il nostro turno, ma qui muoiono persone che avevano vitalità, affetti, relazioni. Uomini e donne che avevano ancora qualcosa da dire». Avevano ancora qualcosa da dire: parole di un uomo di 96 anni.

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