I nostri rifugi, la montagna
non firmata è vincente

In un rifugio di montagna si dorme con chi arriva quella sera lì. La doppia uso singolo non l’hanno ancora inventata. Si va a dormire quando dicono i rifugisti, perché un rifugio non è un albergo 24h. E quando molto, ma molto prima dell’alba i pavimenti scricchiolano, perché chi ha molte ore di cammino davanti si alza prestissimo, nessuno osa protestare per i rumori. In un rifugio non si sta comodi, non c’è la spa col percorso benessere che ti fa dimenticare di essere al mondo. Nei rifugi è tutto il resto a farti dimenticare

il «resto» del mondo. La montagna è come il migliore dei massaggi. Rilassa, ripulisce, «toglie», come ama dire Mauro Corona. E tanto più «toglie» quanto più è povera, «non firmata», per usare un’altra felice definizione dello scrittore di Erto. La montagna non firmata è una montagna povera, che i rifugi, come quelli delle Orobie che sono reduci da un’estate di successi (ne parliamo nelle pagine di cronaca della Provincia), sanno conservare. I rifugi non guardano ai fatturati. O meglio: guardano anche a quelli, perché senza i fatturati anche un rifugio va gambe all’aria. Ma a un rifugio probabilmente basta restare in piedi, basta un bilancio sano, non urge fare business. Ed è per questo che l’attività dei nostri rifugisti è ancor più meritoria. Pensateci. Tutto, da anni, gioca «contro» la montagna e chi la vive, chi la abita, chi la mantiene. I servizi che si allontanano (il punto nascita di Piario, pur con tutte le ragioni della decisione, ne è solo l’ultimo esempio). Il lavoro che manca. Le «comodità» che ben che vada stanno a qualche decina di chilometri fatti di buche e tornanti. Per forza che la montagna, poi, alla lunga si spopola, le case si chiudono, i paesi diventano paesini, poi borghi fantasma in cui magari resiste qualche vecchietto irriducibile. La gente va via, dalla montagna. E i rifugi la riportano lì. Tante volte li si vede, dai paesi. Lucine accese là in alto, che ti vien da domandarti chi ci sia, lassù, stasera.

Non è solo retorica. Spesso si sente dire di investimenti (meritori, sia chiaro) a sei zeri per rivitalizzare questa o quella località, per investire nel turismo, per cercare quella «molla» che fa volume, fa fare affari, e alla fine dà lavoro. Però questo messaggio dei rifugi che vanno forte forse merita un’interpretazione. Forse chi vuole la montagna firmata, il resort di lusso col panorama da urlo a portata di selfie, sa già dove andare a trovarla. La montagna sempre di moda, anche se poi magari si fa solo qualche passeggiata nel viale centrale e roccia, terra e fango sotto le suole, per carità. Forse la nostra è più una montagna così. Più povera di altre, forse più autentica. La nostra è una montagna per montanari, più che per professionisti del weekend. Se i rifugi hanno successo, forse è questa la chiave: chi ci va cerca, e lì trova, un posto in cui star bene, non in cui star comodi. Star bene nella semplicità, in angoli che si sperano ancora autentici, e pazienza se magari il wi-fi va e viene e la sera non si vede la partita di Champions sulla tv ultrapiatta.

Forse alla nostra montagna servirebbe investire più nella sua identità che nella rincorsa a ciò che altri fanno - e sono - semplicemente perché hanno i panorami alpini più belli del mondo (ogni riferimento alle Dolomiti è puramente voluto). Noi quei panorami lì non ce li abbiamo (Presolana a parte, ma nel suo «piccolo» pure lei), ma abbiamo tanto altro. Entrare in un rifugio e sentir parlare tedesco o ladino non è esattamente come varcare la soglia dell’Albani (per esempio) ed essere accolti da un concerto di scalvino stretto. Non conosci nessuno e di quella lingua capisci niente, ma ti senti a casa lo stesso. Questa piccola gioia è un valore enorme. Magari, pensandoci bene, è pure la base di un buon affare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA