I poveri inaspettati
e il nodo lavoro

C’è una povertà inaspettata che sta crescendo. È la povertà di giovani con meno di 35 anni che lavorano e hanno famiglia. È un identikit inedito, che scardina alla radice gli stereotipi che ancora abitano l’immaginario comune. Ci sono gli anziani, spesso soli, certo. Ma su quel versante abbiamo tutto sommato una storia di servizi e di assistenza rodati e consolidati, oltre che un allenamento a intercettare bisogni ormai più o meno noti e codificati, dalle necessità di vita quotidiana a quelle più specificamente sanitarie.

Se parliamo di trentenni, invece, non viene spontaneo pensare al rischio povertà, tanto più se si tratta di persone con un lavoro, e c’è da chiedersi se siamo attrezzati per intercettarlo e affrontarlo. Ecco, la realtà drammatica che emerge anche nella nostra ricca Bergamo è proprio quella di lavori e lavoratori poveri. Ce la restituisce la ricerca voluta dalla Cgil provinciale, che l’ha condotta insieme all’istituto Ires. Da noi si stimano, in tutto, 60 mila poveri assoluti. Sono più o meno uno ogni cento abitanti: non sono pochi e sono diversi.

Avere un’occupazione non mette più al riparo dal pericolo di scivolare al di là di quella sottile linea di demarcazione fra la tranquillità socioeconomica e il disagio. Il lavoro tende a essere discontinuo e di bassa qualità. La retribuzione ancora di più. Fa specie registrare come in un sistema ancora forte come il nostro, la retribuzione media lorda di un lavoratore dipendente sia di 14,49 euro l’ora, solo 50 centesimi in più rispetto alla media nazionale. Per il 10% dei dipendenti meno retribuiti il guadagno medio non supera gli 8,53 euro l’ora. E ancora: mentre il reddito medio da pensione in cinque anni è cresciuto in valore nominale dell’11,1%, quello da lavoro dipendente si è fermato a un timido più 3,4% che al confronto impallidisce.

È evidente che c’è qualcosa che non funziona. C’è un divario fra generazioni che scava distanze e inasprisce disparità sociali, già di per sé troppo forti ai tempi nostri, e non solo tra giovani e anziani. Se alla descritta condizione lavorativa media, aggiungiamo poi il fattore famiglia, qualche domanda sul declino demografico del Paese sorge: al netto delle letture sociologiche sull’individualismo, in termini strettamente pratici avere figli diventa un problema in più anziché un sogno, che di conseguenza ci si nega. In termini di risposte, sul territorio c’è tanta buona volontà e progettualità per arrivare il più possibile ovunque a metterci una toppa, con esempi virtuosi e creativi anche sul fronte dei bisogni abitativi, terreno su cui da tempo latita una strategia nazionale per la casa, in grado, ma magari è utopia, di interpellare pure il privato, in un mercato dove sfitti e invenduti non si contano. È chiaro che, se da una parte è lodevole il tanto spendersi nei paesi e nelle periferie urbane, dall’altra urgono, e non da oggi, risposte politiche alte e possibilmente inedite, come inedita è la povertà cui ci troviamo di fronte. I nidi gratis, per dire, vanno benissimo.

Ma cosa diciamo alla mamma che deve partire alle 5 di mattina per andare a fare le pulizie a Milano? Difficile aspettarsi una risposta nella manovra su cui il governo sta ancora lavorando. C’è da augurarsi, tuttavia, che sia sul fronte famiglia, con annesso welfare, sia sul fronte lavoro, dalla discussione in atto esca un impianto in grado di rafforzare e al tempo stesso semplificare le misure e dare davvero un orizzonte al Paese. Sul lavoro, in particolare, da anni non si riescono a mettere in campo politiche capaci di creare occupazione e, soprattutto, buona occupazione. Anzi, le cronache degli ultimi tempi vanno esattamente in direzione opposta. Ma più rinviamo la questione lavoro, più il nostro tessuto socioeconomico rischierà di deteriorarsi e impoverirsi: un argine va messo, e va messo subito.

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