I servitori dello Stato
abbandonati dallo Stato

«La macchina blindata è disponibile solo la mattina, la sera uso la mia automobile. Non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere poi libero di essere ucciso la sera». L’amara, preveggente, affermazione fatta 35 anni fa da Paolo Borsellino innanzi alla Commissione antimafia denuncia, nella sua scarna crudezza, una delle maggiori lacune del nostro Stato. Ne emerge l’immagine di un uomo solo, che testardamente va avanti per la sua strada. Il magistrato siciliano sapeva di lavorare su una polveriera, così come lo sapeva Giovanni Falcone.

Meno di un anno prima di quell’audizione il giudice istruttore Rocco Chinnici – che entrambi consideravano un padre – era saltato in aria per mano della mafia. L’anno successivo stessa sorte sarebbe toccata a due poliziotti in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata: Beppe Montana e Ninni Cassarà. Servi esemplari dello Stato, per dedizione e coraggio, lasciati dallo Stato in balìa del loro destino. E la lista non riguarda soltanto gli uomini delle istituzioni. Anche Peppino Impastato avrebbe pagato con la vita la sua costante, tenace azione di denuncia contro la malavita organizzata. I casi sono innumerevoli, basti pensare alla «morte annunciata» del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, trucidato insieme alla moglie, nella loro auto crivellata dai colpi dei sicari della mafia.

Questa lunga scia di morte e di morti fa parte di una guerra che lo Stato combatte da sempre contro il crimine organizzato. I magistrati e gli appartenenti alle forze dell’ordine sanno – si potrebbe obiettare – a cosa possono andare incontro, conoscono i pericoli che incombono su di loro. Perfettamente vero. Proprio dalle testimonianze di quei solitari eroi emerge sovente la lucida percezione della precarietà che avvolge le loro vite. Ciò nonostante, vi sono aspetti che denunciano le carenze, i ritardi, le omissioni (per non dire altro) nell’opera di tutela delle persone che mettono a repentaglio la loro esistenza per un bene superiore, quello della giustizia. Che è, a sua volta, fondamento dell’ordine democratico, della legalità, della convivenza civile.

Nelle parole di Borsellino raggela la solitudine «organizzativa» nella quale erano costretti a svolgere il loro pericoloso lavoro. Uffici con scarso personale (magistrati, personale amministrativo, poliziotti); uffici a volte sprovvisti di personale specializzato nelle tecniche avanzate di investigazione (quella che siamo usi vedere nei telefilm statunitensi). Borsellino lamentava di computer arrivati in tribunale e collocati in un camerino per problemi di installazione. Se non fosse vero, sarebbe da non crederci. Come combattere con una fionda contro uomini armati di mitra. Nella condizione del giovane Davide di fronte al possente Golia. E nella realtà, si sa, quasi mai Davide sconfigge Golia.

La vicenda conduce a un’amarissima considerazione. Era il 1984, Borsellino e Falcone vennero trucidati otto anni dopo. Nel frattempo cosa aveva fatto lo Stato, cosa aveva fatto la politica, per tutelare meglio i suoi uomini migliori? La risposta più pertinente alle domande che la deposizione di Borsellino fa emergere è venuta ieri da Maria Falcone. Interpellata da un quotidiano, ha condensato la vicenda con una frase – è il caso di dire – lapidaria: «Paolo Borsellino e Giovanni non sono eroi perché sono stati uccisi. Ma perché lavorando in quelle condizioni non si sono arresi». Eroi in vita, dunque, prima ancora di esserlo diventati - a imperitura memoria della nostra sbilenca società - cadendo, insieme alle donne e agli uomini di scorta, per la mano assassina della mafia. E allora, un’ulteriore domanda si impone. Retorica, ma nel contempo lacerante: come può uno Stato democratico abbandonare al loro destino di vittime i suoi servitori più valorosi, siano essi illustri magistrati o semplici rappresentanti delle forze dell’ordine? Persone che, mentre servono lo Stato fino all’estremo sacrificio, avrebbero il diritto di credere che quello stesso Stato li tuteli al meglio. E non si mandi al massacro.

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