Il debito pubblico, paragone sbagliato

MONDO. Il debito pubblico giapponese, pari al 258% del Pil, è il più alto al mondo ed è stato fatto costantemente lievitare negli ultimi trent’anni con l’obiettivo di stimolare la crescita dell’economia. Si tratta tuttavia di un debito che non ha mai suscitato preoccupazioni da parte degli investitori internazionali.

Questa particolare condizione del Giappone sta diventando un caso di scuola in Italia, dove alcuni politici e, soprattutto, qualche economista della Lega si sono spinti fino a sostenere che anche il ragguardevole debito pubblico italiano, pari al 140% del Pil, possa non rappresentare un problema. Si tratta di affermazioni preoccupanti e per varie ragioni prive di fondamento. Cominciamo col dire che il debito pubblico giapponese è in gran parte detenuto dalla Banca Centrale e per la restante parte da investitori giapponesi. Questi ultimi non hanno alcun interesse a diventare creditori ostili al proprio Paese.

Il nostro debito, invece, è detenuto per un quarto dalla Banca d’Italia, per un quarto dalle banche nazionali, per un quarto da investitori internazionali e per un ultimo quarto da assicurazioni, fondi pensione, residenti privati e aziende. Un rilevante nocciolo duro dei detentori del nostro debito è quindi molto attento al rapporto (spread) tra i titoli pubblici italiani e i bond tedeschi, giudicati i più affidabili in ambito europeo, tanto che proprio all’andamento di questo rapporto è continuamente ricondotto il livello di affidabilità nazionale.

Un secondo aspetto è che da tempo il «deficit» del bilancio giapponese, cioè la differenza tra le entrate dello Stato e le spese, è costantemente in calo e ciò contribuisce a non far crescere il debito. Nel caso dell’Italia, viceversa, il deficit è in costante crescita. Attualmente è pari al 7% del Pil. Questo comporta una spesa per interessi superiore ai 60 miliardi l’anno che provoca un continuo aumento del debito. Non a caso, le regole contenute nel nuovo Patto di stabilità sono particolarmente severe riguardo al deficit dei Paesi membri, prevedendone una necessaria, anche se graduale, riduzione fino all’1,5% del Pil. Altra grande differenza tra noi e il Giappone è che la loro spesa pensionistica è del tutto sostenibile dalla finanza pubblica interna, nonostante una popolazione che, come la nostra, ha un’aspettativa di vita sempre maggiore. Ciò, grazie a una serie di riforme che hanno portato l’età pensionabile a settant’anni. Il sistema pensionistico italiano, per motivi soprattutto politici legati a una spasmodica ricerca del consenso, non è stato quasi mai oggetto di riforme sostanziali che riuscissero a renderlo meno oneroso per le future generazioni.

Altro aspetto da non trascurare è che, secondo calcoli dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani, lo Stato giapponese possiede attività non finanziarie, come gli immobili, per un valore che va oltre il 100% del Pil e titoli finanziari per il 112% del Pil. Lo Stato italiano detiene attività non finanziarie pari al 52% del Pil e attività finanziarie pari al 28% del Pil.

Il patrimonio è da sempre il principale strumento a disposizione dei creditori e lo Stato, in caso di necessità, può vendere immobili e titoli finanziari per ripagare il proprio debito. Il Giappone vendendo soltanto una parte del patrimonio potrebbe già dimezzare il debito. Non è un caso che fino ad oggi non abbia mai vissuto una crisi di fiducia da parte degli investitori, così come accaduto all’Italia durante la crisi dei debiti sovrani del 2011 e 2012. C’è poi la gestione dei conti pubblici, dove il Giappone si è sempre dimostrato prudente, riuscendo a contenere la spesa corrente e a rendere efficiente l’apparato dello Stato. Ha, tra l’altro, adottato una riforma fiscale che prevede aliquote che vanno dal 5% al 45% a seconda dell’ammontare del reddito e un’aliquota forfettaria del 23,9% per le società. Questa scelta di progressività fiscale, che tende alla redistribuzione della ricchezza, ha reso irrilevante l’evasione che nel nostro Paese ammonta a oltre 90 miliardi l’anno. Ecco perché, per tutto questo insieme di oggettive, differenti storie ed esperienze socioeconomiche, appare quanto mai inopportuno ogni accostamento del debito giapponese al nostro.

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