Il dibattito sul Pnrr stia lontano dagli eccessi

IL COMMENTO. La Legge di bilancio in discussione in Parlamento vale 24 miliardi di euro, tra tagli di tasse e nuove spese. Grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), uno Stato molto indebitato come il nostro è un po’ come se avesse a disposizione otto manovre aggiuntive per stimolare e trasformare l’economia da qui al 2026.

A tanto equivalgono i 194,4 miliardi di euro di prestiti e sovvenzioni alimentati dai fondi europei di Next Generation Eu. È legittimo e comprensibile, dunque, che il dibattito pubblico si concentri spesso attorno al Pnrr. Per le stesse ragioni, però, è doveroso evitare grossolane approssimazioni e conflitti inutilmente esasperati.

In queste ore possiamo dichiararne concluso almeno uno di questi conflitti. Il Governo italiano ha infatti presentato «il nuovo Pnrr che è stato rivisto e integrato – si legge in una nota dell’esecutivo - in stretta collaborazione con la Commissione europea». Eppure per settimane, alla fine dello scorso anno, una buona parte della classe dirigente nazionale si era divisa in maniera manichea proprio sulla «malleabilità» del Pnrr: per alcuni modificarlo era possibile anzi doveroso, per altri invece era impossibile se non addirittura un peccato di lesa maestà nei confronti di Bruxelles.

Con il via libera della Commissione alle modifiche proposte dall’esecutivo la scorsa estate, sono stati smentiti tanto coloro che sognavano di rottamare il Pnrr quanto coloro che lo ritenevano intoccabile.

Più in generale, rimangono tuttavia importanti limiti nel racconto pubblico che si fa del Pnrr, a partire dal fatto – spesso dimenticato - che la quantità ingente di risorse pubbliche non è di per sé garanzia di successo del Piano. Sostenerlo equivarrebbe a esaltare in maniera acritica le presunte capacità e possibilità – di Bruxelles come di Roma - di dirigere la crescita a nostro piacimento. Da questo pregiudizio di stampo «dirigista» sono discese conseguenze molto concrete, come l’eccessiva fiducia nella capacità della nostra Pubblica Amministrazione, a ogni livello, di gestire finanziamenti in quantità inusitate con annesse tipologie di rendicontazione mai utilizzate prima. A maggior ragione, dunque, è da salutare positivamente il cambio di approccio contenuto in alcune novità appena introdotte nel Pnrr. Nel nuovo capitolo «RePower Eu», pensato a Bruxelles per emanciparsi dalla dipendenza dal gas russo, Roma ha fatto rientrare per esempio il piano «Transizione 5.0», cioè 6,3 miliardi di euro da investire nella transizione verde e digitale delle imprese nel biennio 2024-25. La misura è originale sotto almeno due punti di vista.

In primo luogo, non interessa la Pubblica Amministrazione ma direttamente le aziende che potranno acquistare con modalità agevolate beni strumentali – materiali o immateriali – per l’efficientamento energetico, o quelli necessari per l’autoproduzione e l’autoconsumo di energia prodotta da fonti rinnovabili, oppure potranno finanziare la formazione del personale in competenze per la transizione ecologica. In secondo luogo, si tratta di risorse che verranno erogate attraverso lo strumento del credito d’imposta, quindi senza eccessive intermediazioni dell’amministrazione pubblica.

A costo di semplificare un po’, si può dire che in questi ultimi anni in Occidente, per accompagnare le transizioni digitale e verde si sono confrontati due paradigmi: uno fondato su sussidi e crediti d’imposta per i privati (modello Inflation Reduction Act degli Stati Uniti) e un altro basato sugli investimenti pubblici (Next Generation Eu). Con «Transizione 5.0» si apporta un piccolo correttivo «americano» al nostro Pnrr. Un esperimento che sarà bene seguire con attenzione, abbandonando la logica degli scontri ideologici, pronti a replicarlo in caso di successo.

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