Il Diritto violato
Le piaghe del mondo

Il Diritto internazionale in tempi di sovranismi e nazionalismi risorgenti non gode di buona considerazione. Nel senso comune è ritenuto un orpello, un’utopia vecchia, materia per intellettuali barbosi e illusi, per anime belle e per politici poco pragmatici. Addirittura un intralcio, nel fenomeno caldo dell’immigrazione, prevedendo una serie di doveri che favorirebbero l’inesistente invasione. L’obbligo di salvare la vita in mare ad esempio costituisce un preciso vincolo per gli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare.

In spregio al diritto internazionale l’Italia ha considerato porto sicuro per i respingimenti la Libia in guerra e il recente decreto Di Maio sui rimpatri inserisce la Tunisia fra i Paesi di ritorno, una violazione non avendo quello Stato una legge sul diritto d’asilo. Il diritto internazionale invece non è il prodotto di un pensiero irenista ma è cresciuto sul sangue delle vittime delle due guerre mondiali, come tentativo di arginare nuove mattanze. Nel primo di quei conflitti l’80% delle vittime erano militari. Il rapporto è andato via via invertendosi e oggi l’80% dei morti in guerre sono civili.

La codificazione del Diritto internazionale umanitario risale addirittura alla seconda metà dell’Ottocento e deve la sua origine soprattutto a Henry Dunant, fondatore del Comitato internazionale della Croce rossa, motivato dagli orrori ai quali aveva assistito durante il conflitto di Solferino. Gli strumenti giuridici su cui si basa questa branca del diritto sono le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949. Trovano la loro applicazione principale durante le guerre ed hanno come scopo primario limitare l’uso della violenza per proteggere chi non prende parte alle ostilità, in primis, bambini, donne e civili in generale. Convenzioni dell’Onu vincolano i Paesi membri (oggi sono 196) a «risolvere le proprie controversie con mezzi pacifici e di evitare di minacciare altri Stati o di usare la forza contro di loro». In questi giorni c’è stata una diffusa e trasversale indignazione contro l’invasione turca in Siria e l’attacco ai curdi che avevano combattuto (vincendo) l’Isis.

L’attacco disposto dal presidente Erdogan costituisce una grave violazione di quel diritto internazionale bistrattato e talvolta irriso dal senso comune. La Turchia è membro delle Nazioni Unite e sottoposta alle convenzioni ricordate. Ma Ankara bolla i curdi come terroristi, che non sono protetti né dalle leggi di guerra né dal diritto umanitario. Secondo l’Onu il conflitto ha già provocato centinaia di vittime e costretto oltre 165.000 persone, fra cui 70.000 bambini, a lasciare le loro case. Nel mirino dei raid sono finiti anche ospedali pubblici e delle ong occidentali, violando il diritto umanitario internazionale. Non viene nemmeno più rispettato il divieto (che non è solo un modo di dire) di sparare sulla Croce rossa.

C’è anche il sospetto che siano state usate bombe al fosforo, in spregio alle norme contro l’uso di armi chimiche. Ma chi potrebbe imporre l’applicazione delle leggi del diritto internazionale? L’Europa non ha un suo esercito (già nel 1954 Alcide De Gasperi immaginava una Comunità europea di difesa). Lo statuto dell’Onu all’articolo 42 prevede operazioni di «peace enforcement», di imposizioni della pace attraverso contingenti di caschi blu. Ma il problema dell’Onu rispecchia i mali del mondo contemporaneo. Nel Consiglio di sicurezza, organo decisore, siedono le grandi potenze (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) con diritto di veto: prevalgono così gli interessi nazionali sul bene comune. È la stessa patologia che non permette di ridisegnare un nuovo ordine mondiale: conviene ognuno per sé. In barba al diritto internazionale e alle vittime di guerra.

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