Il Marocco vince, la festa di tutti

Calcio. No, non era Italia-Australia del 2006. E nemmeno Italia-Germania, o la finale degli Europei di poco più di un anno fa, vinta dagli azzurri contro l’Inghilterra, per di più in casa loro.

Non c’era il «po-po-po», per le strade di Bergamo, sotto le luminarie di Natale. C’era un pezzo di città e di provincia che è emerso tutto insieme, esplodendo in una gioia incontenibile: il Marocco ha conquistato, per la prima volta nella storia del calcio, una semifinale Mondiale. E’ la prima, vera, bella storia calcistica che emerge da questo discusso Campionato del Mondo, assegnato al Qatar con i «meccanismi» che sono già parte delle cronache, messo in piedi con una macchina organizzativa che non ha guardato in faccia a nessun diritto, e realizzato con regole tanto liberticide da impedire persino l’esposizione di bandiere con una parola universale solo in teoria: freedom, libertà.

Questo Mondiale indigesto, calcisticamente modesto e politicamente figlio dello scandalo, ci regala la più classica delle favole sportive: la piccola impertinente che mette in fila le più grandi, le favorite. Prima, in un girone con la Croazia vicecampione del mondo e giustiziera del Brasile e il Belgio eterna promessa. Una squadra, quella nordafricana, capace di non subire gol nemmeno negli ottavi di finale contro la Spagna, resistendo fino alla vittoria ai calci di rigore. E capace di chiudere la storia mondiale di Cristiano Ronaldo, con una partita tutta catenaccio vecchio stile. Che non sarà bello da vedere, ma quando una squadra si difende bene è scorretto dire che gioca male: gioca bene, difendendosi più che attaccando. La difesa fa parte del calcio quanto l’attacco, e difendersi è l’arma principale degli umili.

Dal fischio finale di Portogallo-Marocco è stato un attimo. Prima qualche strillo, poi qualche clacson, poi un diluvio di gioia. Un autentico fiume di bandiere rosse, di clacson, di mortaretti. Una festa marocchina a Bergamo, ma anche una festa dei bergamaschi con i marocchini. La lancetta ha ampiamente superato le 21, quando scriviamo, e ancora si sente, giù nel viale, qualche rigurgito di festa.

«Festeggiassero a casa loro», ha commentato un soggetto su Facebook (dove qualcuno ha messo in giro le solite fake su accoltellamenti o devastazioni alla stazione: tutto falso). «Sono a casa loro», è stato il coro di risposta. E vale la pena di citare integralmente il commento di un lettore che era lì, dentro la festa. «La cosa bella - ha scritto Maurizio Rocchi nella pagina Facebook de L’Eco - è che sono tantissimi ragazzi e ragazze e tutti parlano italiano o bergamasco. Ho visto 14-15enni che accompagnavano i loro nonni (probabilmente i primi immigrati) che rispondevano in italiano alle frasi in arabo dicendo più volte: “Parla in italiano che non ho capito”. Se non è jus soli questa!». Al di là del tema - più politico - dello jus soli, la bellezza di questo pomeriggio di festa marocchina è proprio questa: ha ricomposto un’immagine dei marocchini tra noi che ogni giorno vediamo pezzetto per pezzetto. Come quando si apre la scatola di un puzzle: lo sai cosa comporrà, ma è impossibile «vederla».

La festa di ieri pomeriggio ha di colpo ricomposto l’immagine della Bergamo di oggi: una città in cui le culture si mescolano e convivono. Certo, non senza incomprensioni, differenze e diffidenze. Certo, non senza - talvolta - finire in cronaca giudiziaria. Ma questa è la realtà del tempo in cui viviamo, e l’immagine che resta nel cuore è quella dei tantissimi bergamaschi in strada dopo la partita e nel pieno dello shopping natalizio, insieme ai marocchini. Non festeggiavano per loro: festeggiavano con loro.

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