Il ponte sullo stretto: una prova per l’Italia

ITALIA. Il ponte di Messina si può fare. Come dice il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, la presenza della mafia non deve essere un ostacolo per le grandi opere.

Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini fa bene a volersi intestare un’opera strategica per l’Italia e per l’Europa all’insegna del fare presto. Ma farebbe bene a non prendersela con chi come don Luigi Ciotti ha trascorso la sua vita a combattere le mafie. L’espressione usata per il fondatore di Libera «se espatria fa un favore a tutti» non è corretta per chi è riuscito a riqualificare 991 immobili confiscati alle mafie ed è parte civile in 76 processi alla criminalità organizzata. Una vita dedicata alla memoria delle 1.100 vittime innocenti colpite dalla violenza criminale della malavita organizzata. Nomi scanditi uno per uno nella Giornata della memoria e dell’impegno, come ha riferito Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera». E questo per aver detto a Bovalino in Calabria che con il ponte si avvicinano di certo due coste ma con il rischio anche di unire due cosche. La mafia siciliana e la ’ndrangheta calabrese che potrebbero spartirsi gli appalti.

L’Italia è rimasta negli ultimi vent’anni ostaggio di un riflesso condizionato. Se si fanno appalti pubblici l’infiltrazione mafiosa è dietro l’angolo. Così nella ricostruzione post terremoto di Amatrice del 2016 si è proceduto con tutte le cautele nel timore di fare diventare realtà quello che era stato un auspicio di Francesco De Vito Piscicelli. Nel 2009 nella notte del terremoto all’Aquila il direttore tecnico dell’impresa Opere pubbliche e ambiente spa veniva pizzicato al telefono con il cognato dicendo «io ridevo stamattina alle tre e mezza dentro il letto». Indagato per corruzione, ha cercato sempre di scagionarsi ma quella frase è rimasta negli annali come la maledizione delle opere pubbliche.

La burocrazia italiana è lenta perché sovraccaricata da mille disposizioni che nascono da una sola preoccupazione: cercare di prevenire il Male nazionale. La caduta del ponte di Genova nel 2018 è stato il punto di svolta. Bisognava ricostruire il più in fretta possibile e per farlo occorreva semplificare e unificare la procedura. L’esperimento è riuscito perché grande era l’emozione nel Paese e sbagliare non si poteva. Ma il Piano nazionale di ripresa e resilienza, costola italiana del Next generation Eu, mette a prova l’intero sistema. Non si tratta più di uscire da un’emergenza ma istituzionalizzare un percorso per realizzare i progetti in modo veloce, efficiente e senza sprechi. Si è inventato anche il neologismo «mettere a terra», accezione sconosciuta in altre lingue europee, per far capire che l’esecuzione è decisiva e la progettazione pur importante perde la sua funzione se non compiutamente eseguita.

Il Sud d’Italia è costellato di opere incompiute. Si pensi solo alla Salerno-Reggio Calabria i cui primi consistenti piani di intervento risalgono al governo Craxi nel 1987. Allo stato attuale sono ancora in corso i lavori per le opere complementari. Per il ponte che unisce Danimarca a Svezia, lungo quasi 15 chilometri, ci sono voluti quattro anni per la realizzazione e la soddisfazione finale era di aver superato tutte le difficoltà. Nessuno ha pensato a interferenze mafiose. Ragionare come se fossimo in Danimarca è per noi italiani impossibile.

La costruzione della galleria ferroviaria del Gottardo è durata tredici anni con nove caduti sul lavoro ma nessuno scandalo finanziario. Il presidente della società Stretto di Messina, interamente pubblica, è Pietro Ciucci, già a capo dell’Anas dal 2006 al 2015 e oggetto di attenzione dell’allora Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone. Non proprio il nuovo che s’avanza. Tutto è possibile ma dimenticare il passato l’Italia non può più permetterselo.

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