Il presidente e altre vie per l’Italia che verrà

Per Sergio Mattarella è stato l’ultimo 2 Giugno, l’ultima festa della Repubblica da Capo dello Stato. Forse. Non è escluso infatti che le circostanze lo inducano a cambiare il suo pur fermissimo «no» all’ipotesi di rielezione (sul precedente di Giorgio Napolitano). Di fronte alle continue sollecitazioni, più volte Mattarella ha ripetuto la sua intenzione di «riposarsi» e soprattutto ha confermato la contrarietà proprio all’idea di un secondo mandato dando ragione postuma al suo predecessore Antonio Segni che avrebbe voluto inserire la non rieleggibilità in Costituzione. Però la politica ha anche la sua logica stringente e il Paese ha i suoi bisogni. L’Italia che, ha detto ieri nelle celebrazioni, si trova come nel 1946, 75 anni fa, alla vigilia di una fase di ricostruzione nazionale, deve tenere in sicurezza le istituzioni. A cominciare dal Quirinale la cui stabilità e prestigio è ormai da decenni un punto di riferimento non solo per tutti gli italiani, o per la stragrande maggioranza di loro, ma anche per il contesto internazionale, europeo, d’Oltreatlantico, per i mercati e gli organismi di sicurezza.

Nelle tante tribolazioni della politica italiana, il Colle è stato sempre visto come un presidio sicuro (anche perché fortunatamente i partiti quasi mai hanno sbagliato a scegliere l’uomo da portare sulla prima poltrona repubblicana) quantomeno dai tempi di Pertini. E la rielezione di Napolitano in un momento di marasma politico e di maggioranze inesistenti nel pieno della tempesta finanziaria, ne è la riprova. Ora molti vorrebbero ripetere l’esperimento con Mattarella, almeno per un paio d’anni, lasciando Draghi a Palazzo Chigi a completare il lavoro del Recovery Plan e poi magari spedire il presidente del Consiglio a sostituire Mattarella in corso di settennato. Un piano perfetto, probabilmente il più ragionevole, che ha uno scoglio: Mattarella medesimo. In questa incertezza è difficile dunque considerare i discorsi di queste celebrazioni come il vero «testamento politico» del presidente. Di sicuro sono state parole pesanti e pesate, come sempre.

Come quelle dedicate alla ricostruzione post-pandemia innanzitutto, facendo appello alle forze di tutti gli italiani che durante questo anno e mezzo così terribile hanno già dato largamente prova di compattezza e di capacità di adattamento e di resistenza. Tutte qualità che adesso occorre mettere ancora una volta alla prova dimostrandosi all’altezza della sfida del Pnrr. «Aver cura della Repubblica»: Mattarella continua ad esortare tutti a capire che questa opportunità di rilancio che ci viene offerta potrebbe essere l’ultima, e sarebbe un disastro se non fossimo capaci di coglierla. Del resto non a caso proprio Mattarella ha voluto che a Palazzo Chigi andasse un uomo delle capacità e del prestigio internazionale di Mario Draghi nel momento in cui il governo Conte-bis era ormai messo fuori gioco dalle sue tante contraddizioni interne.

Secondo punto, l’Europa, aggancio fondamentale, anzi «compimento del destino nazionale»: la scelta repubblicana del 2 Giugno 1946 e quella europea sono per il Capo dello Stato intimamente congiunte e conseguenziali, e tali devono restare. Perché - e questo è il terzo caposaldo del discorso mattarelliano - ai giovani che chiedono spazio per la loro crescita occorre garantire con l’Europa un futuro nella grande transizione ecologica e digitale che ci sta cambiando la vita e sempre più la cambierà. «La storia siamo noi e nessuno si senta escluso» è stata la inusuale citazione di Francesco De Gregori con cui Mattarella ha voluto incorniciare un messaggio da politico di razza, anzi da statista di cui sicuramente il suo maestro Aldo Moro sarebbe stato fiero.

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