Il rischio di una triste società della paura

ITALIA. C’è una preoccupazione pensosa e densa per le prospettive del Paese nelle parole che il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, ha pronunciato ieri davanti all’assemblea dei vescovi italiani.

Da anni non ascoltavamo una prolusione così attenta su un presente inquieto, con visione larga e attenzione allarmata e al tempo stesso con uno sguardo amico che insieme custodisce la memoria dell’Italia e della sua gente e indica cosa vedere di nuovo, cosa imparare, senza imporre selezioni influenzate da emozioni o dall’ambiguità di parole rese ormai equivoche e incerte dall’uso che se ne fa.

Zuppi ha messo in fila molte cose, ha analizzato strategie di governance, ha lanciato appelli, ha condensato prospettive, perché la Chiesa non sta fuori dal Paese ad osservare dalla finestra. L’attenzione al presente è prima di tutto una ricerca di senso, sulla vita e sulla pace, e lo stimolo a ridare valore alla coesione e alle relazioni personali e politiche. L’attenzione ai «segni dei tempi» e il loro discernimento comporta anche qualche critica, necessaria in tempi il cui il principale compito per chi osserva e analizza e poi elabora e indica percorsi, è quello di sbaragliare paure, inquietudini e irresponsabilità.

Ma non si può negare che le parole di Zuppi sono state un richiamo e anche un rimprovero circa la presunta normalità che il Paese ha raggiunto dopo la pandemia, forse troppo sveltamente dimenticata nei suoi moniti, quasi una recessione infantile per spazzare via irrazionalmente la crisi epocale che abbiamo vissuto e allegramente andare altrove, ma senza ancoraggi, senza riferimenti, solo impegnati a contrapporre, a separare, al più a desiderare e a lucidare identità antagoniste.

Quale società abbiamo costruito dopo la pandemia e in mezzo alla guerra? Il presidente dei vescovi ieri ha tentato di offrire più che una risposta un’istanza sui temi che devono resistere ai populismi, alle semplificazioni, alla corruzione, al cinismo, ma anche alla conservazione di destra o di sinistra. Zuppi ha fatto la stessa operazione che i vescovi italiani fecero tanti anni fa ormai con il documento «La Chiesa italiana e le prospettive del Paese» mentre si usciva faticosamente dagli anni di piombo e all’orizzonte già si affacciava chi, con fredda determinatezza neo-conservatrice, cercava di governarne il passaggio secondo logiche leggere, evanescenti, private e non pubbliche, bene personale e non bene comune. La prolusione di ieri va letta e riletta, al di là degli appelli e delle sollecitazioni, dal lavoro precario al piano casa come fu nel dopoguerra con le «case Fanfani», al di là della vicinanza all’Emilia Romagna ferita dall’acqua e agli studenti delle tende, al di là degli avvertimenti ad un Paese sempre più vecchio e solo senza politiche demografiche «lungimiranti», al di là della follia di contrapporre «valori etici e valori sociali» e dell’idea di riformare il Paese e le sue istituzioni ognuno da solo e non secondo l’unitario «spirito costituente».

Zuppi all’Italia, la sua e la nostra Italia, ha chiesto se davvero siamo contenti di star dentro una «triste società della paura», dentro un «tempo emozionale e soggettivo che rivela e accentua processi di deculturazione», dove tutto «diventa fluido anche quello che ieri sarebbe stato impensabile». Lo ha chiesto alla politica e a ognuno di noi, perché malcostume e corruzione, esasperazione e individualismo sono diffusi in troppe realtà istituzionali e in ogni classe sociale, lo ha chiesto all’informazione «così complessa» da «spingere all’indifferenza» e lasciare tutti noi «spettatori» di «una guerra ridotta a gioco». Ma lo ha chiesto anche alla Chiesa, dove timidezza e pessimismo non sono ammessi.

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