Il rispetto delle regole
a tutela della salute

La vicenda dell’ aperitivo ai Navigli che tanto ha fatto imbestialire il sindaco di Milano è emblematica della distanza tra «due Italie»: una ligia alle regole, l’ altra insofferente verso qualsiasi norma che limiti bisogni e voglie individuali. Sala ha ragione nel promettere di chiudere nuovamente la città nel caso tali fatti incresciosi dovessero ripetersi. Al di là dell’ aspetto amaramente folkloristico di giovani (e meno giovani) tracimati in strada, al primo giorno di sblocco dell’«Iorestoacasa», come fossero stati segregati in galera per dieci anni, l’ episodio fa trasparire quanto diffusa sia l’ ignoranza nel Belpaese.

Non parliamo dell’ ignoranza culturale, ma di quella civile. La prima c’ è sempre stata e non scomparirà mai, è fisiologico. Non tutti leggono Proust o Manzoni; non tutti sono tenuti a sapere quante siano le sonate per pianoforte di Beethoven; non a tutti è nota la differenza tra impressionisti ed espressionisti. Si vive bene anche senza saperlo.

Ma a nessuno dovrebbe mancare il senso delle regole e l’ importanza di rispettarle. Alla base di comportamenti dissennati come quelli esibiti nell’«aperitivo libero» ai Navigli ai tempi del coronavirus si scorge - come termometro del tessuto civile del Paese - un deficit di etica delle regole. Le norme restrittive emanate dal Governo e dai poteri locali sono strumenti di tutela non soltanto dell’ incolumità fisica dei cittadini, ma soprattutto dell’ intero sistema sociale.

Da più parti si dice che occorre far ripartire l’ economia. Giustissimo. Ma la salute di tutti (lavoratori, imprenditori, famiglie) è il presupposto biologico perché ciò avvenga. Se il livello dei contagi non diminuisce fino ad azzerarsi, non si va da nessuna parte. Lasciarsi andare a comportamenti pericolosi è il primo passo per tornare alla paralisi sociale. L’ ignoranza di cultura delle regole è figlia legittima (ancorché malata) della carenza di pedagogia civile. Di tale deficit sono responsabili in primo luogo le istituzioni pubbliche. Aver soppresso per alcuni decenni l’ insegnamento di educazione civica nelle scuole è stato un errore esiziale, al quale appena di recente si è cercato di porre rimedio.

Non meno gravi sono le incertezze delle istituzioni nel comunicare le ragioni delle scelte che compiono, spesso poco decifrabili. Comunicazioni chiare, precise, comprensibili sono un fattore essenziale della legittimazione dei poteri pubblici. L’ ondeggiare, il parlare oscuro, lo iato tra le promesse e la loro realizzazione finiscono per favorire la trasgressione delle norme.

Alla confusione, che alimenta e moltiplica la scomposizione sociale, concorre in misura massiccia la difficoltà dei media nel fronteggiare l’ ondata delle incursioni piratesche che arrivano dalla galassia dei social. Su questo terreno la partita è disperata, con handicap enorme proprio da parte di chi lavora per dare informazioni corrette, verificabili, non inquinate. Nel furoreggiare delle opinioni più strampalate e, sovente, artatamente false, televisioni e giornali hanno vita difficile. C’ era un tempo nel quale «l’ ha detto la televisione» era quasi una patente di certezza. A partire dagli anni Ottanta l’ arrivo delle tv commerciali, l’ erompere dei talkshow, l’ impazzare di donnine discinte e di vocabolario da bettole, hanno portato a uno scadimento quasi irreversibile dei valori. Su questa strada la Rai si è rapidamente inoltrata, accodandosi alla ferrea legge dell’ audience.

Eppure, proprio la tv di stato aveva promosso negli anni del miracolo economico programmi come «Non è mai troppo tardi». Allora si trattò di affrontare l’ analfabetismo di ritorno di contadini e operai: un progetto di valore civile enorme in una fase di crescita del Paese. Oggi la Rai dovrebbe avere la lungimiranza di mandare in cantina trasmissioni nelle quali l’ ignoranza, più che ammessa, è fondamento del loro successo di audience. E al posto di nefaste palestre di inciviltà ridare spazio e sostegno a strumenti di educazione civile.

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