Il triste no alle cure, difficile da accettare

IL CASO. No, anche questa volta. No, come era già avvenuto per Charlie Gard e per Alfie Evans. No, dunque anche per Indi Gregory. I giudici inglesi non hanno trovato il coraggio e così oggi pomeriggio le cure che tengono in vita Indi Gregory, otto mesi, affetta da una rarissima malattia del Dna, verranno interrotte e la piccola morirà.

Il giudice Robert Peel dell’Alta Corte di giustizia inglese si è opposto al trasferimento in Italia al Bambino Gesù e ha deciso ieri che il «Queen’s Medical» di Nottingham può staccare la spina oggi pomeriggio alle 15, ora di Londra. È una storia piccola quella di Indi, in mezzo alle storie drammatiche di centinaia di bambini massacrati nelle guerre quotidiane. Fa parte dell’orrore consueto di questi nostri giorni brutali, ma va raccontata, per evitare di tracciare un perimetro ideologico alla disumanità. Indi Gregory è nata il 24 febbraio affetta da una malattia che non dà scampo, rarissima, che colpisce poche decine di bambini nel mondo.

Ma al Bambino Gesù hanno sempre pensato che non esistono bambini incurabili e che curare non significa sempre solo guarire. Dopo le vicende di Charlie Gard nel 2017 e poi di Alfie Evans nel 2018, l’ospedale del Papa ha elaborato la prima ( e unica al mondo) Carta dei diritti del bambino inguaribile. Così, oggi come allora aveva dato la sua disponibilità. L’Italia si sarebbe assunta tutte le spese e la famiglia, con l’aiuto di alcune associazioni, avrebbe pagato il trasferimento con un aeroambulanza.

Perché dire di no ancora una volta? Il governo italiano nei giorni si era interessato alla vicenda assicurando ogni copertura finanziaria e il Bambino Gesù, con una lettera del presidente dell’ospedale Tiziano Onesti ai genitori della piccola Indi, Claire Staniforth e Dean Gregory, aveva anche allegato le indicazioni di un primo piano terapeutico dopo aver esaminato la cartella clinica di Indi, che oltre tutto soffre di uno scompenso cardiaco che aggrava il quadro clinico rispetto al quale i pediatri italiani, a differenza di quelli inglesi, erano più ottimisti. La battaglia legale è andata avanti per settimane. Era stato tentato anche un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, che tuttavia non ha voluto esaminare il caso. La sentenza insomma sembrava già scritta, visti i due precedenti di Charlie e di Alfie, ai cui genitori era stato negato il trasferimento. I giudici hanno ripetuto che si tratta di cure troppo invasive, che non giustificano gli eventuali benefici e che il trasporto in aereo potrebbe essere molto pericoloso. Insomma, per Indi è meglio morire.

Inoltre, neppure le prove di un altro consulto medico di alto livello come quello del Bambino Gesù è stato permesso ai genitori e ai legali della famiglia di Indi di presentare ai giudici, che non si sono mai spostati dalla loro decisione presa «nel migliore interesse» della bambina. Nei due casi del passato la rilevanza mediatica della vicenda era stata molto alta. L’allora presidente del Bambino Gesù Mariella Enoc era volata in Inghilterra per cercare una soluzione per il caso di Alfie Evans ma non era nemmeno stata ricevuta dai vertici dell’ospedale di Liverpool dove era ricoverato. Papa Francesco era intervenuto, aveva chiesto di fare tutto il possibile, il governo aveva fatto pressione su Downing Street, alcuni deputati inglesi avevano interrogato nel question time la premier Theresa May che non aveva chiuso la porta.

Questa volta il governo e il Bambino Gesù hanno scelto il low profile, forse sperando in una soluzione diversa. Ma che «né il cuore degli inglesi né lo scettro del re», versi indimenticabili di Fabrizio De André, allora per Geordie oggi per Indi, sembra possano tollerare.

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