Il Viminale non è più
un palco mediatico

Sorpresa: il nuovo ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ex prefetto di Milano, non ha un profilo social, non usa twitter. Lady Viminale ha già spiazzato tutti, introducendo da subito, con un pezzo del proprio vivere quotidiano, un elemento di discontinuità rispetto al governo felpastellato. Un’anomalia benvenuta nella bulimia generale dei politici, sul terreno principale della sfida a Salvini, su quello che è stato il palcoscenico mediatico del capo leghista e su cui ha costruito il proprio successo: la gestione della sicurezza e della migrazione e il suo racconto all’opinione pubblica.

La comunicazione, nell’era della saturazione dei flussi continui, è quasi tutto: costruisce il pensare e l’agire politico e, infatti, i condottieri del presente sono leader online. Salvini, ma non solo lui, ha forzato al massimo con la sua macchina da guerra comunicativa («La Bestia»), una celebre teoria di 60 anni fa: «il mezzo è il messaggio», cioè la natura e gli strumenti dei media influenzano molto più dei messaggi trasmessi. Il confronto non è fra la modernità con il turbo e un approccio tradizionale, perché dobbiamo ritenere che la signora Lamorgese (40 anni di Viminale alle spalle, più l’incarico a Venezia e a Milano) conosca alla perfezione i nuovi media, ma che abbia voluto per sè un’area di riservatezza, preferendo interloquire per via istituzionale. Anche se prima o poi il passaggio all’account, piaccia o meno, potrà diventare obbligato.

Conta, però, lo scarto fra l’incontinenza social di Salvini e quella che si annuncia come la sobrietà comunicativa del nuovo ministro. La scelta di Lamorgese è caduta su un tecnico per stemperare il clima dopo il ciclone Salvini, ma il governo del ministero degli Interni è totalmente politico, anzi – come ha sottolineato il direttore di «Avvenire», Marco Tarquinio – assume un «potente significato politico». Così come emendare i decreti sicurezza secondo i principi costituzionali e scrivere una nuova legge sull’immigrazione non sono una mera questione amministrativa: dietro le norme c’è sempre un’idea di società, la tenuta o meno dello Stato di diritto e del grado di civiltà giuridica di un Paese. La forma rimane sostanza. Il ministero dell’Interno non è il luogo dei muscoli e della forza e il suo titolare non è il «ministro di polizia», piuttosto è la sede che deve garantire libertà, legalità e sicurezza a tutti. Tutto questo si chiama cittadinanza e non solo ordine pubblico.

Il Viminale non può agire da megafono propagandistico sulla falsariga dei social: un tanto al chilo, aggressivo e disinvolto. La comunicazione social, protagonista e pure vittima del lento divorzio tra cittadino e politica, è chiamata in causa perché, essendo diventata il luogo d’elezione dei tronisti del narcisismo, fabbrica eventi che trasmettono e orientano un messaggio. E quel che s’è letto e sentito in questi mesi ha contribuito a inquinare il livello delle credenze e della fiducia dei cittadini nei riguardi della sfera pubblica. In questo modo è stato assicurato l’effetto trampolino per i flussi migratori e l’impatto della cronaca nera: questioni serie e anche drammatiche da governare, diventate uno spettacolo mediatico da emergenza senza fine. Via il senso della misura e del limite. Il marketing politico fra mito e ideologia. In una Rete in cui passa di tutto e con pochi filtri, la menzogna viene sterilizzata e costruisce la narrazione dalle tinte forti. Gli esperti la chiamano post verità, basta definirle bufale. O meglio: mezze verità, il gioco opaco fra il detto e il non detto, nell’ambiguità fra il verosimile e il finto, il livello più sofisticato della non verità.

L’aggressività diventa determinazione, la volgarità coraggio. I social, tuttavia, non restituiscono un’immagine veritiera del consenso popolare, dato che amplificano anche gli errori di comunicazione: il Capitano s’era convinto di avere i «pieni poteri» perché li aveva messi nel circuito, ma era privo del potere di coalizzare una maggioranza in tal senso. Le parole martellano e bombardano, muovono convinzioni, si riflettono sui comportamenti, stabiliscono un senso comune. Lasciano ferite e possono far male anche a chi le pronuncia, come deve aver appreso Salvini.

Socrate invitava così: insegnate ad argomentare bene e prevarranno i migliori. Twitter non appare ancora uno strumento socratico, ma se nel tempo della verità avvelenata c’è qualche signora che si prende una pausa inusuale e non cinguetta, abbia almeno il conforto di sapersi dentro una grande storia. In tempi grami non è poco.

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