Il virus senza barriere
ma i confini resistono

Il Covid 19 avanza in Europa e pialla le convinzioni che, un po’ per ansia e un po’ per abitudine, ci eravamo costruiti durante l’estate. Spagna e Francia superano il milione di contagi, prima e seconda nella tragica classifica europea, e le autorità sanitarie spagnole ammettono che potrebbe essere stata censita solo una quota tra il 60 e l’80% dei casi reali. L’efficienza tedesca? Bella cosa ma in questi giorni la Germania ha toccato l’apice dei contagi e tra i positivi c’è persino Jens Spahn, il ministro della Salute. I Paesi del Nord risalgono in disordine il mito dell’immunità di gregge che avevano cavalcato con orgogliosa sicurezza, l’Europa centrale è flagellata (in Slovenia più 150% di morti in un giorno), il Regno Unito ha più contagiati ora che in marzo.

L’Italia, che per qualche tempo aveva persino vantato un «modello» di risposta alla pandemia, pare sull’orlo di una crisi di nervi. Non c’è Paese che non abbia chiuso o non si appresti a chiudere questo o quel settore in questa o quella fascia oraria. Non si parla più di lockdown, perché nessun agglomerato sociale sarebbe più in grado di sopportarne uno. Ma viene usato il termine «coprifuoco». Come in guerra perché siamo in guerra. E non pare che la vittoria sia vicina.

Inutile dilungarsi su ciò che ormai chiunque sa e che medici e scienziati ripetono da tempo: questo virus è arrivato dal nulla con modalità nuove e pericolose, abbiamo imparato a conoscerlo sulla pelle di migliaia di pazienti, c’è ancora molto da studiare e da capire. È tutto vero e l’emergenza che scuote l’ Europa, senza distinguere tra destra e sinistra, democrazie e regimi autoritari, progressisti e nazionalisti, lo dimostra a sufficienza.

Eppure si ha la sensazione che in qualche modo sia mancata quella presa di coscienza che davamo quasi per scontata. La consapevolezza, cioè, che con la pandemia il mondo non poteva più essere quello di prima, doveva aprirsi a forme nuove di collaborazione e riconoscimento. Dicevamo: il virus ci renderà migliori. È successo solo in minima parte. Ora che i contagi ripartono, riemerge il ricordo di quando i Paesi d’Europa, nel marzo scorso, si strappavano l’un l’altro le forniture di mascherine, di camici e persino di gel. Ci sono esempi virtuosi di collaborazione (per esempio l’alleanza tra Italia, Francia, Germania e Olanda per le ricerche sul vaccino) ma nell’insieme la sensazione è che gli Stati siano andati ognuno per conto proprio, affrontando da singoli un virus che invece aggredisce il gruppo. D’altra parte pandemia vuol dire «di tutto il popolo». Più chiaro di così.

Guardiamoci intorno. Gli Usa hanno cercato di accaparrarsi i vaccini a suon di miliardi. Una lunga serie di Paesi rifiuta di impiegare un eventuale vaccino russo perché… russo, anche a scapito della salute dei propri cittadini. Vogliamo restare nella vecchia cara Unione Europea? Che dire della lunga litania di vertici con poco costrutto, rimandati di settimane anche se svolti via computer, mentre il virus travolge tutte le barriere? Tre mesi per approvare il Sure, il programma contro la disoccupazione messo a punto dal commissario all’economia, l’italiano Paolo Gentiloni. E discussioni infinite (tra i Paesi, tra la Commissione e il Parlamento europeo) intorno al Recovery Fund, che non è ancora definito, che una volta definito dovrà essere approvato da tutti i Parlamenti (al rischio di imboscate) e che avrebbe dovuto essere licenziato entro il 15 ottobre (come da accordi di luglio) mentre lo sarà, se va bene, entro Natale. Il che significa che i primi soldi arriveranno alla vigilia dell’estate prossima, lasciando al virus troppi mesi per far danni. Ci voleva altro, insomma. E la considerazione che tutti facciano del loro meglio in condizioni difficili è di scarsa consolazione.

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