Impeachment, ma Trump
alla fine sarà indenne

L’impeachment, ovvero la messa in stato d’accusa del presidente degli Stati Uniti, è un atto storicamente eccezionale, di carattere formalmente giuridico, ma in realtà assolutamente politico. Per Donald Trump, paradossalmente, si potrebbe rivelare addirittura un insperato dono del cielo. Ma prima vediamo di che si tratta. La Costituzione americana prevede infatti che questa procedura possa avvenire in tre casi definiti «straordinari»: alto tradimento, corruzione o non meglio precisati «crimini e misfatti», in inglese «crimes and misdemeanors» (qualcuno si ricorderà che è il titolo di un film di Woody Allen).

Quest’ultima è una dizione che permette di introdurre praticamente qualunque cosa. Ma i giudici del tycoon americano, accusato di abuso di potere e ostruzione ai lavori del Congresso in un complesso caso che riguarda l’Ucraina, non sono gli inquilini dell’ala Sud del Campidoglio, ovvero i deputati della Camera (dove la maggioranza è democratica), bensì quelli dell’ala Nord: i 100 senatori. I deputati votano solo se mandarlo al Senato. Il suo vero tribunale. E tra i senatori la musica cambierà, perché la maggioranza è repubblicana.

L’impeachment è una procedura politica per rimuovere il presidente dalla propria carica, e funziona come un processo: nelle prossime settimane si terrà un vero e proprio dibattimento in Senato, al termine del quale un voto deciderà se dare lo sfratto o no all’attuale inquilino dalla Casa Bianca. Sarà l’occasione di qualche dura requisitoria da parte dei senatori democratici, che permetterà loro di ottenere visibilità. Trump è il terzo della serie dei presidenti colpiti da impeachment. Il primo fu Andrew Johnson, nel 1868, successore di Abramo Lincoln, di cui era vicepresidente, dopo il suo omicidio. Il secondo, nel 1998, fu Bill Clinton, accusato di aver detto il falso per le sue tresche con alcune stagiste, tra cui la famosa Monica Lewinski. Nessuno di loro fu condannato. Altri due rischiarono la stessa sorte: John Tyler nel 1840 (ma la richiesta non andò a buon fine) e James Buchanan, che finì sotto commissione, ma il verdetto fu che non si doveva procedere. Un quinto presidente evitò di arrivare fino in fondo dimettendosi per evitare la procedura: fu Richard Nixon nel 1974, dopo che esplose il famosissimo scandalo Watergate, il quartier generale dei democratici fatto spiare per ordine del presidente repubblicano (come scoprirono i cronisti del «Washington Post» Bob Woodward e Carl Bernstein).

Il giudizio finale dunque, come detto, è del Senato, dove i senatori repubblicani sono la maggioranza: 53 contro 47. Perché Trump venga destituito occorrono i due terzi dei votanti. Venti senatori repubblicani dovrebbero passare dall’altra parte. Cosa molto improbabile. Donald Trump dunque verrà assolto. Il fatto che venga giudicato pubblicamente (e assolto) potrebbe addirittura giocare a suo favore il 3 novembre prossimo, quando si rivoterà per le presidenziali. In America, la patria della democrazia moderna, a far cadere i presidenti, finora, non sono i giudici o i politici, bensì la gente, l’opinione pubblica espressa dai sondaggi e informata dalla stampa e dagli altri mass media. Come ben sapeva Nixon, che gettò la spugna per limitare i danni già ampiamente alimentati dai media. In questo caso entrerà in gioco un nuovo attore, i social network, ormai collaudati propalatori delle bufale più inverosimili, non disdegnate neppure da Trump, che ne fa largo uso, come ormai sappiamo. Durante la requisitoria al Senato ne vedremo di tutti i colori dunque, prepariamoci. Ma alla fine Trump ne uscirà indenne e probabilmente addirittura rafforzato.

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