Imprese, slancio
e crescita al palo

Ci si attendeva un Vincenzo Boccia forse più polemico ed aggressivo, nella sua ultima relazione come presidente di Confindustria (scadrà il prossimo anno), ma la presenza del Capo dello Stato ha reso più paludata l’Assemblea di ieri a Roma, cui seguirà, settimana prossima, quella di Banca d’Italia. Due élites poco amate, ma decisive per il futuro del Paese. Boccia ha scelto di evitare gli spigoli, smorzando nei toni ma non nella sostanza gli spunti critici, numerosi tra le righe di una relazione con qualche puntuta denuncia della «bulimia del like», del «presentismo» e della «superficialità come regola di comportamento», bordate incassate da un Conte seduto al centro della platea. E ha condannato le parole in libertà, che da sole creano danni rilevanti a spread e Borsa.

La base lo ha applaudito ripetutamente, così come ha salutato calorosamente il presidente Mattarella, riservando invece un gelo frigorifero al ministro dello Sviluppo Di Maio, con lo «sciopero dell’applauso» richiesto il giorno prima, nell’Assemblea a porte chiuse, dalle territoriali del Nord, che hanno forse in Carlo Bonomi di Assolombarda il falco per la successione del campano Boccia. Leggermente più cordiale l’atteggiamento verso il presidente Conte, che anziché leggere un lungo messaggio preconfezionato come il suo ministro, zeppo di riferimenti a misteriose «cabine di regia» futuribili, è partito dal riconoscimento che se l’Italia siede al G7, ciò è dovuto alla capacità di lavoro delle imprese.

Boccia ha oscillato, nell’anno di governo populista, tra atteggiamenti molto severi, quasi barricaderi all’epoca del decreto dignità, che penalizzava imprese e lavoro, con minaccia addirittura di discese in piazza, a quelli più disponibili talora verso la Lega, preteso baluardo contro le decrescite grilline, e in altri momenti verso i 5Stelle, dai quali incassare il recupero di misure importanti.

È prevalso il dialogo (con buone aperture ai sindacati), in attesa di vedere l’effetto di decreti definiti urgenti a febbraio e ancora in forse a fine maggio, come superammortamento e industria 4.0, già cancellati dalla furia iconoclasta contro tutto ciò che «c’era prima». Lo stesso Di Maio ha del resto rivendicato la nobiltà di saper «cambiar idea», anche se nel frattempo le risorse per rimettere in campo questi incentivi sono state ingoiate da una spesa corrente prevalentemente assistenziale.

Sul tema delle infrastrutture, le distanze restano invece larghe, e il ministro dello Sviluppo ha dichiarato la propria avversione ad un no che ha definito «pregiudizievole», quasi ammettendo freudianamente i danni creati. Forse voleva dire «pregiudiziale», per far contento Boccia che aveva appena citato Karl Popper e la sua società aperta, non ideologica.

Certo, Boccia - usando temi cari all’inascoltato Tria - non ha risparmiato i numeri della stagnazione certificata il giorno prima dall’Ocse (senza citare lo speranzoso 0,3% dell’Istat) e l’impietoso -14% del reddito pro capite dell’Italia rispetto all’area euro, i 32 miliardi «almeno» da mettere in manovra per il 2020, il paragone con la Spagna che oggi paga 5 miliardi in meno di interessi, e con la Francia che ha uno spread di quasi 250 punti inferiore al nostro.

L’auspicio di Boccia perché maggioranza e opposizione collaborino di fronte ad una vera e propria emergenza, sembra però un pio desiderio, visto che il compito di ricostruire la crescita è diventato proibitivo per chiunque, e visto che il quadro politico sembra avere solo le elezioni come alternativa. Difficile realizzare anche il sogno di Confindustria per un’Europa che sappia essere «gigante politico», ma per una risposta almeno su questo, mancano solo tre giorni per il voto.

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