Intelligenza artificiale, ma il limite è umano

MONDO. Si dice che sui cannoni dell’esercito di Luigi XIV fosse inciso il motto «L’ultima ragione dei re», a dire che la legge del più forte ha i suoi strumenti indifendibili per imporsi.

Se funziona più di altro, alla fine, è vincente: ha ragione, al di là di tutte le altre buone ragioni che possono provare a opporvisi. È l’incisione che da sempre accompagna anche il mito del progresso tecnocratico, monarca assoluto d’Occidente da ormai tre secoli: se un prodotto «funziona» meglio dell’invenzione precedente, se è più efficace e vantaggioso, vince. Punto. Entra a far parte dello stile di vita collettivo, al di là di tutte le altre buone ragioni sul suo significato. È andata così per gli elettrodomestici che hanno snellito il dietro-le-quinte della vita di casa e per tutto l’arsenale hi-tech che ha invaso le nostre routine. Probabilmente, andrà così anche per l’Intelligenza artificiale, con buona pace di tutte le strenue difese, allestite con mezzi fragili e antiquati come sono le parole e i pensieri, che provano a negoziare altre ragioni e striminziti significati nel confronto con l’ultima ragione dei re.

Non è la stoica e commovente opposizione al progresso di un gruppo di nostalgici, profeti di sventura troppo vecchi, o novelli amish che cercano rifugio dalla malvagia complessità dell’evoluzione digitale. È certo che l’Intelligenza artificiale conquisterà fette sempre più ampie di mercato, di lavoro e di influenza sulle nostre decisioni: non è alla forza di Sua Maestà che ci si vuole ribellare (e nemmeno varrebbe la pena perdervi energie). È l’implicito che umanamente fa problema: l’idea che le cose che riguardano la vita degli uomini, se funzionano, allora sono anche buone e giuste. Lo sappiamo e lo sentiamo che non è così, ma i vantaggi che ci derivano e la fatica di pensare ci fa trangugiare la sconfitta come se fosse una vittoria, che poi alla fine, neppure ci dispiace.

«L’ultima ragione dei re». Sull’altro lato, quello che rimane in ombra, dovrebbe comparire la scritta «Se funziona, allora è buono e giusto». Ma è una bugia. Oggi stiamo ancora facendo i conti con la «bontà» e la «giustizia» di ciò che ha talmente funzionato da essere diventato parte delle nostre vite da decenni: con un cambiamento climatico preoccupante e con l’equilibrio dell’ecosistema planetario che non riusciamo più a compensare, con lo squilibrio delle ricchezze che ha esasperato i flussi migratori e mina l’ordine delle cose, con la capacità di concentrazione dei nostri ragazzi e la loro fatica a interpretare con piglio l’esistenza, già abbastanza soddisfatti dalla simbiosi con l’anestetico digitale chiamato smartphone. È normale, i costi non si possono prevedere tutti prima: la merce prima si acquista e poi si paga. Vero. Ma questa volta si rischia di avere a disposizione pezze troppo piccole da mettere sullo strappo. I nuovi strumenti hanno qualcosa che l’aratro e il Boeing non avevano: entrano nello spazio personale e intimo in cui ciascuno dà forma a sé e alle proprie scelte. Sono tecnologie di sé, che alterano l’identità del singolo: entrano nei modi di percepire e di definire chi sei tu. Il sacrario dell’identità perde i suoi recinti.

È cominciato tutto con il fatto che l’online sia diventato un mondo a parte, al di là dello schermo, ma molto reale. Lì viviamo un pezzo della nostra vita e lasciamo un sacco di dati, di informazioni su chi siamo e come ci muoviamo. Questa mole immensa di informazioni viene analizzata da un algoritmo, per trarre uno schema preciso di come funziona il mondo interiore degli esseri umani, con i loro desideri e le loro abitudini. Un’analisi scientifica, dettagliata, planetaria. Si è costruito così un modello predittivo, che cioè indovina cosa cercherai tra un attimo, di cosa hai bisogno, come ti senti: il tutto predisposto per andare a nozze con gli interessi della pubblicità. Ma il risvolto è che il magmatico e oscuro fondo interiore degli uomini (quello che i cristiani chiamavano anima, i filosofi coscienza o identità, e i medici psiche) è diventato meno opaco e sconosciuto. Come se qualcuno avesse acceso la luce, ci è stato rivelato dalle tecnologie del sé come funzioniamo dentro. L’ultima ragione dei re. E abbiamo preso per buono il fatto che anche l’uomo, come tutti i suoi prodotti, alla fine, è un funzionamento logico e matematizzabile. L’Intelligenza artificiale viene da qui. Dall’idea che l’intelligenza umana e il mondo interiore siano una cosa che funziona. E che può farlo meglio.

Ma proprio questa è la questione da dibattere. Se non ci sia qualcosa in più, un resto, un avanzo, un’eccedenza di umanità che non è racchiudibile sotto l’etichetta del funzionamento. Le cose della vita vera «funzionano» proprio perché logicamente non funzionano affatto: l’amicizia, il tifo per la squadra del cuore, l’incontro con il limite, la malattia e la morte, il confronto con la diversabilità, le sorprese a volte spiacevoli con cui viene avanti il futuro, le lotte per tenere insieme i pezzi e gli affetti… C’è una disfunzionalità enorme al cuore del «funzionamento» umano. C’è un limite che non è un male, che non va per forza rimosso perché è impoverente: è la condizione che ci ha insegnato a vivere come uomini. Questo non possiamo perderlo, perché perderemmo la nostra intelligenza, senza la quale l’Intelligenza artificiale sarebbe solo «artificiale». E senza intelligenza, a nulla varrebbero tutte le ragioni, fossero anche quelle dei re.

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