Italia, bene il turismo ma investire in ricerca

ITALIA. In Grecia la gente non ne può più di turisti. Li chiamano «il movimento degli asciugamani». Reclamano più spazio e diritti di accesso alle spiagge libere. Il turismo sta crescendo a numeri vertiginosi.

A livello globale siamo verso il miliardo e trecento milioni. La Grecia è in prima linea e quest’anno saranno più di 31 milioni i visitatori. È ormai un assalto e albergatori e balneari, per tener il passo con la crescente richiesta, sono costretti ad occupare sempre più accessi al mare. Un eccesso che provoca proteste estemporanee destinate però a spegnersi. Troppo forte il peso del turismo nell’economia del Paese. Un posto di lavoro su cinque dipende dalla frequenza degli arrivi. Se calano come nel 2020, le prospettive per molti sono la disoccupazione. Il 25% del Pil prodotto nasce da quello che si chiama il «sovraturismo», una nuova espressione per definire il volto di quello che una volta era la vacanza. Ne nasce una dipendenza che riduce le possibilità di scelta del Paese e ne mortifica la sovranità. Dipendere dagli umori o dalla moda che si genera al di fuori dei confini è sempre rischioso. È come puntare sullo sviluppo avendo come base solo una monocultura. Viene una crisi che colpisce il settore ed il Paese precipita.

L’esperienza greca è utile per l’Italia. Anche qui il turismo è una componente rilevante del prodotto interno lordo, incide per il 5% ma ha riflessi indiretti sull’economia nazionale per il 13%. L’ occupazione che è legata al settore tocca il 15%. Numeri rilevanti che si inseriscono in un quadro che vede l’economia italiana divisa in tre grandi gruppi: il settore primario, cioè agricoltura al 2% circa, poi il secondario al 25%, ovvero industria al 20% e costruzioni al 5%. Il restante 73% sono il terziario, quindi i servizi. La struttura è quindi in media simile a quella dei Paesi industrializzati, il punto da chiarire sono i servizi. Il terzo settore è strategico nelle economie moderne, è qui che si sviluppano la ricerca, le forniture cosiddette immateriali, per intenderci internet e quello che ne segue per le telecomunicazioni e per la logistica, si pensi alle consegne a domicilio ecc. Per un Paese come l’ Italia è un conto se l’occupazione nasce dalla ristorazione e dai servizi alberghieri, un altro se conta sulla presenza di grandi centri di produzione e ricerca. La richiesta di personale qualificato ha una ricaduta sulla formazione e induce le strutture della pubblica amministrazione ad investire nella scuola e nella formazione. Negli anni Settanta l’Italia era poco conosciuta all’estero e in regioni allora considerate remote come il Giappone il made in Italy era rappresentato dalla pizza, dalla cultura culinaria e dalla bellezza dei luoghi. Per fortuna si sono fatti passi avanti ma il punto di svolta ora sta nel definire un percorso per il futuro del Paese.

Vogliamo un destino come quello greco dove l’eccesso di turismo genera squilibri e dipendenza oppure definiamo un percorso che pur mantenendo la tradizione del Bel Paese difenda la sovranità nazionale e quindi la sua autonomia strategica? Solo i servizi ad alto valore aggiunto come i processi industriali ad alto tasso tecnologico e soprattutto la ricerca nei settori della salute, delle energie alternative e della lotta al cambiamento climatico danno una prospettiva in un mondo globalizzato. Camillo Benso, conte di Cavour, padre della patria, ci può aiutare in questo critico passaggio. In un testo del 1846 scriveva: pur senza voler fermare il movimento che spinge gli stranieri verso l’Italia lo considereremo però veramente utile, però, solo quando, potendo farne a meno grazie al progresso delle sue industrie, potrà trattare quel movimento su un piede di perfetta parità.

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