La Brexit diventa
un salto nel buio

Quella di Theresa May, come si è visto, non è stata una sconfitta ma una catastrofe parlamentare. La bozza di accordo con la Ue per regolamentare la Brexit, ovvero il distacco definitivo del Regno Unito dall’Unione europea, è stata respinta dal Parlamento inglese con 432 no e 202 sì, una disfatta che su quegli scranni non si vedeva dal 1924. E non basta. Entro lunedì la premier dovrà presentare un piano B che non ha. L’Unione europea maramaldeggia e Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, sibila che «il tempo è quasi finito», ricordando agli inglesi che il 29 marzo si taglia il cordone e buonanotte a tutti.

Per finire, il laburista Jeremy Corbin chiede le dimissioni della May ed elezioni anticipate. Tanta debolezza, però, potrebbe diventare il vero punto di forza della May. Perché la verità è una sola: il Regno Unito si è lanciato nell’avventura della Brexit senza avere la più pallida idea di ciò che quella decisione avrebbe comportato.

Non l’avevano i politici, a partire da David Cameron, il premier che nel 2013 promise il referendum per l’uscita dalla Ue se gli inglesi avessero confermato la maggioranza di governo dei conservatori. Non l’avevano allora, come non l’hanno oggi, i veri o presunti esperti, che hanno ormai previsto tutto e il contrario di tutto. E meno di chiunque altro l’ha il cittadino inglese, al quale è stato chiesto di prendere una decisione complicatissima con uno strumento rozzo come il referendum a turno unico e a maggioranza semplice. Come togliere un’appendice con un martello.

Se invece vogliamo affidarci ai conti della serva, allora dobbiamo riconoscere che la fuga delle aziende dalla City e dintorni non c’è stata. E che sì, è vero, l’economia inglese non va male ma non andava male nemmeno prima del referendum. Diciamolo ancora: nessuno sa quel che succederà con la Brexit.

La May, la cui fede pro-Brexit è fuori discussione, ha fatto ciò che qualunque buon commerciante avrebbe fatto. Ha cercato di limitare i costi e massimizzare i profitti, negoziando con la Ue le migliori condizioni d’uscita possibili. Compito ingrato, però, perché le sparano addosso da due lati. La Ue non può mollare, se si mostrasse arrendevole altri Paesi potrebbero seguire l’esempio inglese. E nel Regno Unito non mancano i duri e puri, quelli che fanno la voce grossa contro qualunque ipotesi di accordo che a loro sembri dannosa per la dignità nazionale.

Nessuno, oggi, nel Regno Unito, sa come gestire questo meccanismo a orologeria. Vedrete quindi che la May, massacrata in Parlamento, verrà infine salvata anche dai compagni di partito che ieri le hanno votato contro. I conservatori non possono regalare a Corbin l’occasione di un’elezione anticipata, quindi si terranno stretta la premier. Il voto prima del termine, d’altra parte, non avrebbe risolto nulla, comunque fosse andato, ma solo aumentato la confusione mentre il 29 marzo si fa sempre più vicino. Resta il «no deal», ovvero la Brexit realizzata in assenza di un accordo (qualunque accordo) con la Ue. Peccato che nessuno lo voglia. Il che fa da prova del nove a quanto dicevamo all’inizio, al fatto cioè che nessuno sa bene che cosa voglia dire, per il Regno Unito come per tutte le altre maggiori nazioni europee, sganciarsi al buio dalla comunità europea.

Difficile, quindi, che la May sia prossima a uscire di scena. Non a caso, finora, da una crisi all’altra, sono stati sempre i suoi avversari a mollare il colpo, ministri, compagni di partito o oppositori che fossero. E la morale della sua storia, come di quella di tutti noi, pare ora piuttosto evidente. Non è detto che stare nella Ue sia questo paradiso in terra. Certo è, invece, che provare a lasciarla può diventare un vero inferno.

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