La Concorrenza. Se vince l’Italia

«Domino’s», colosso americano della pizza nato negli anni Sessanta in Michigan, è stato costretto a lasciare l’Italia senza essere andato nemmeno vicino all’obiettivo annunciato sette anni fa e che consisteva nell’aprire 880 punti vendita nella penisola entro il 2030. Troppo pochi clienti e troppi debiti: è finita così l’avventura tricolore dell’azienda. La notizia è finita sui quotidiani e le televisioni di tutto il mondo.

A una prima lettura, ovviamente, viene da pensare che il flop della società americana sia da addebitare al proverbiale errore di voler «vendere il ghiaccio agli Eschimesi». Davvero Domino’s pensava di conquistare i palati dei nostri connazionali, che in materia sono giustamente «esigenti» (per citare il «Financial Times»), con pizze come la «Hawaiana» condita con pomodoro, scamorza affumicata, bacon e ananas, oppure come la «Meatzza» con salsa della casa, mozzarella, salame piccante e hamburger? La scommessa, una volta che si scorre la lista degli ingredienti, poteva in effetti sembrare molto rischiosa, ma non impossibile per un gruppo con punti vendita in 85 Paesi e con l’appeal internazionale di un prodotto volutamente distinto dall’originale made in Italy.

Approfondendo la vicenda, emerge infatti che c’è ben altro che l’abuso dell’ananas dietro il passo falso di Domino’s. Secondo molti analisti, nei piani originali, il successo dello sbarco in Italia, oltre che dall’effetto curiosità, doveva essere garantito da una cura maniacale dell’organizzazione già dimostrata ad altre latitudini. Un sito internet e una app dove ordinare in modo facilissimo, infinite possibilità di «customizzare» la pizza in base ai propri gusti, un servizio di consegna a domicilio in tutte le aree coinvolte puntuale come pochi. Domino’s aveva iniziato a mettere in campo tutto questo, eppure non è stato sufficiente. Probabilmente perché l’organizzazione manageriale e innovativa in stile Domino’s, nel frattempo, è stata adottata anche da migliaia di pizzerie e ristoranti in giro per l’Italia. Attività commerciali di ogni taglia che, a causa dei lockdown imposti durante la pandemia, hanno dovuto spesso reinventarsi per evitare di chiudere definitivamente i battenti per mancanza di avventori nei locali.

Dalla fine del 2019 abbiamo assistito così a un fiorire di servizi di consegna o asporto, prima improvvisati e poi sempre più efficienti e capillari, in parallelo a un ricorso sempre più frequente e disinvolto da parte dei ristoratori a piattaforme telematiche, app e (ormai famosi) rider. Insomma, è stata la concorrenza di decine di migliaia di pizzaioli italiani che hanno cavalcato svariate soluzioni innovative - oltre a un utilizzo più sapiente degli ingredienti, intendiamoci - a spiazzare il colosso a stelle e strisce. Non a caso, negli stessi documenti interni con cui il franchising italiano di Domino’s spiega le proprie difficoltà, si legge tra l’altro: «Attribuiamo il problema alla forte concorrenza del food delivery, con catene organizzate e ristoranti “mom & pop” che consegnano cibo, ai servizi e ai ristoranti che riaprono dopo la pandemia». Ecco perché dalla ritirata di Domino’s si può trarre un’utile lezione di politica economica per l’Italia. Come dimostra questa vicenda, sbaglieremmo infatti a descrivere la «concorrenza» come una specie di incubo per imprenditori destinati sempre e comunque a soccombere di fronte ad avversari stranieri; sarebbe più utile ricordare che la concorrenza consiste in «un viaggio esplorativo nell’ignoto, un tentativo di scoprire nuovi modi di fare le cose in maniera migliore» (Friedrich von Hayek), un processo di scoperta dal quale le capacità delle nostre imprese possono essere spesso premiate e la sovranità economica del nostro Paese talvolta perfino rinvigorita.

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