La coscienza
dell’inevitabile

Annunciato da Conte con aria vagamente trionfale e una punta di orgoglio per il protagonismo riconquistato, il faccia a faccia con Juncker in programma martedì con ogni probabilità non sarà risolutivo. Più facile che si concluda con il solito nulla di fatto, addolcito dagli immancabili sorrisi di cortesia. Ci sono tutte le premesse. A tenere distanti i due interlocutori non c’è solo la questione dei numerini (miliardi!). Non c’è solo la contesa sul 2% di deficit, la linea del Piave al di sotto della quale l’accordo si trasformerebbe per i gialloverdi in un’indecorosa rotta. Non c’è solo il valore simbolico assunto dal braccio di ferro ingaggiato sul rispetto dei vincoli di bilancio comunitari. C’è ben di più.

Già la comparsata a settembre di Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi per festeggiare l’approvazione del 2,4% di deficit era parsa fuori luogo, oltre che nello stile, anche nel merito. Non era per niente scontato infatti che quel rospo sarebbe stato ingoiato dalla Ue. Ma ciò che tre mesi fa pareva una scommessa ardita ora appare un azzardo sconsiderato. Nessuno dei due soci di maggioranza sarebbe disposto ad ammetterlo, ma da più di un indizio si capisce che stanno prendendo coscienza dell’inevitabile: la direzione di marcia imboccata va corretta se non vogliono andare a sbattere. A suo modo Salvini l’ha fatto intendere rompendo l’incantesimo dell’intoccabilità del «contratto». Si può, anzi è bene – ha fatto intendere – aggiornarlo, viste le novità intervenute nello scenario economico. Ha parlato di novità economiche, ma non di meno devono averlo indotto a correggere il tiro le novità politiche degli ultimi giorni. L’intero fronte del mondo produttivo è sceso sul piede di guerra contro la manovra.

In effetti lo scenario economico sta volgendo al peggio. Guerra dei dazi. Frenata della crescita mondiale. Fine del fiume di denaro elargito da Draghi. Aumento dei tassi di interesse. Tutti i 27 Stati membri dell’Ue con dito puntato contro l’Italia per il suo extra deficit. Sei mesi fa, allargare i cordoni della borsa per avviare una fase espansiva dopo aver stretto la cinghia per un decennio poteva essere sostenibile. Tutt’al più, si peccava per eccesso di ottimismo dando per scontate la comprensione della Commissione europea e la compiacenza dei mercati a secondare l’uscita della seconda manifattura d’Europa da una lunga stagione di sviluppo stentato. Certo, sarebbe stato meglio non eccedere negli attacchi agli euroburocrati, risparmiarsi gli sfottò contro Juncker e Moscovici. Ben diverso è, però, puntare ora su un allargamento della spesa corrente (reddito di cittadinanza e quota 100), accompagnandola per di più con un blocco degli investimenti pubblici, in presenza di una frenata economica, se non proprio di una recessione, di un aumento dei costi di finanziamento del debito e di un clima di sfiducia degli investitori e dei risparmiatori. Significherebbe mettersi nelle mani della speculazione.

Riusciranno i nostri eroi ad arrivare, solidali, concordi e vincenti al voto europeo di maggio? O stanno già correndo ai ripari appellandosi al loro popolo per contenere i danni della loro ritirata? L’adunata leghista nella Capitale ( con convocazione delle associazioni Sì Tav da parte di Salvini) e l’appoggio fornito ai No Tav dai Cinquestelle, andati in scena ieri plasticamente in due città diverse (Roma e Torino), danno la misura della tensione che investe il contratto alla prima prova seria col rischio di farlo finire lesionato.

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