La discesa di Sofia e
le salite della vita

«Alle Olimpiadi, ci dice Livio, hai solo quella chance: devi essere pronta, devi saperla cogliere. Concentrazione massima sempre». Era il 28 settembre 2013, e Sofia Goggia scriveva per questo giornale un piccolo diario da Ushuaia, la fin del mundo della Patagonia Argentina, dov’ era in ritiro con la Nazionale di sci. Giovane, spavalda, consapevole di essere forte, fortissima. Rileggere oggi quelle parole mostra come le medaglie e le coppe che Sofia ha portato a Bergamo da ogni parte del mondo erano come già scritte nel Dna di quella ragazza tanto bella quanto forte, di muscoli, di tecnica, di temperamento. Fortissima in discesa, ma, vien da dire, ancor più forte in salita. Perché questo è stata la carriera di Sofia: tante vittorie in discesa, ma costruite nelle salite di tantissimi infortuni, pedaggio quasi inevitabile da pagare a un’indole da fuoriclasse che non conosce velocità massima; il massimo è sempre, ancora, da raggiungere.

Ogni vittoria va applaudita, e qui il confine tagliente della retorica è ben difficile da non varcare. Perché stavolta sarebbe stata da applaudire forse ancora di più una sconfitta, per il sapore della sfida che si portava appresso, per quelle lacrime sull’elicottero da Cortina all’ospedale di Milano, dove la stampante di un primario avrebbe spedito nuvoloni neri attorno al suo ginocchio già così tante volte ricucito in sala operatoria. Pechino 2022 non si poteva perdere, e Sofia è riuscita in un’impresa - recuperare una lesione parziale di un legamento - che in tre settimane o poco più pareva impossibile. Ma no, non c’è nulla di soprannaturale, anzi. E’ la forza curativa della volontà, è la caparbietà, sarà anche, forse più banalmente, una certa consuetudine con la sensazione di ritrovarsi col sedere per terra e il morale sotto i tacchi. Sofia sa a memoria come ci si rialza, e proprio lei, prima ancora di quest’ ultimo infortunio, è la dimostrazione che quando sembra finita non è mai finita davvero.

Così ha portato a casa una Coppa del Mondo, così è volata in Cina mettendosi nel bagaglio, forse, più interrogativi che certezze. Ha rinunciato al SuperG, dove certamente avrebbe avuto chance di medaglia, per puntare tutto sul tavolo della discesa. Ma non era un bluff, Sofia non è fatta per partecipare. Sofia è fatta come l’ha fatta il Livio sulle nevi del Cerro Castor, nei ritiri estivi di Ushuaia: sempre al massimo, anche in allenamento come se fosse la gara della vita, perché è solo così che si impara a dare del tu a curve che sembrano impossibili, a limare i centesimi e i millesimi, a piazzarsi davanti a tutte, prima o poi. Certo, la velocità sa essere canaglia, e il conto a Sofia l’ha presentato tante, troppe volte. Quest’ ultima sembrava atroce, fatta apposta per cancellarle dal volto quel sorriso spavaldo che dice più di mille parole: è il sorriso di chi sa di essere la più forte, e che quando tutto va bene le altre possono solo sperare di arrivare seconde, sul resto non ce n’è.

Non mollare mai, insomma. La morale della favola è questa e qui, confessiamo, entriamo a piedi uniti nel giardino fiorito della retorica. Non è gratuita, però. Perché Sofia con quest’ impresa scrive di diritto il suo nome nelle imprese leggendarie dello sport bergamasco. E’ riuscita, sfidando anche il destino, a rendere in fondo ininfluente il metallo della medaglia vinta, tanto è più importante il significato che si porta dietro, e l’esempio che, anche al di fuori dello sport, possiamo trarne tutti. Concludeva Sofia il suo diario su L’Eco: «Ripasso mentalmente la giornata appena trascorsa e il pensiero si sofferma sugli obiettivi da raggiungere e sui dettagli che mi sforzerò di migliorare». Direte: ci è riuscita. Anticipiamo la sua risposta: Sofia non conosce la perfezione, la perfezione è sempre un metro più in là. Discesa o salita che sia.

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