La memoria
rende liberi

Il Giorno della Memoria è il giorno in cui in tutto il mondo si ricorda la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, avvenuta appunto il 27 gennaio 1945. Una ricorrenza importante dunque, istituita dall’Onu nel 2005, per non dimenticare lo sterminio del popolo ebraico: un orrore indicibile che rappresenta il più grande crimine dell’umanità. Questa ricorrenza, però, non può e non deve trasformarsi in un momento di mero ricordo, che rimane comunque fondamentale, ma deve servire anche, anzi soprattutto, a creare una memoria condivisa della Shoah, affinché venga tramandata alle nuove generazioni, diventando così patrimonio della cultura del mondo. Un patrimonio di conoscenze, per evitare che tragedie come la Shoah si ripetano e per aiutarci a capire meglio i problemi e le contraddizioni del nostro presente

.È quanto ci insegna la Senatrice a vita Liliana Segre, che lo scorso novembre è stata ospite d’onore dell’Università di Bergamo, e che da tempo è impegnata a testimoniare la sua esperienza di deportata nel campo di Auschwitz-Birkenau. Un’esperienza talmente dolorosa e devastante, aveva appena tredici anni, che ha deciso di raccontare soltanto quando è diventata nonna, pensando appunto ai bambini, ai giovani e alle generazioni future, a chi cioè ha più bisogno di strumenti per far crescere e maturare dentro di sé una responsabilità etica e un sentimento di accoglienza e di rispetto per le persone, a prescindere dal loro credo religioso e dalla loro provenienza geografica.

Non stupisce dunque che, più che al passato, il discorso della Senatrice Segre nell’aula magna dell’Università, significativamente intitolato «Contro l’odio», era colmo di parole rivolte all’oggi, all’attualità, esortando le nuove generazioni a costruire un futuro di giustizia, dove i diritti fondamentali e inalienabili degli individui siano tutelati e riconosciuti come tali.

Nell’accorato invito a coltivare le relazioni umane in maniera profonda ed equa, le parole della Senatrice Segre mi hanno ricordato, ovviamente con le dovute differenze, la missione educativa del pedagogo e medico polacco di origine ebrea Janusz Korczak, che ha consacrato la propria vita ai bambini, alla tutela dei loro diritti e alla crescita delle loro coscienze. Durante l’occupazione nazista, Korczak era riuscito a realizzare un orfanotrofio nel ghetto di Varsavia, dove venivano accolti tutti i bambini ebrei rimasti senza genitori. La mattina del 5 agosto 1942 fu prelevato insieme a tutti i bambini dell’orfanotrofio per essere deportato nel campo di sterminio di Treblinka, e quando gli ufficiali lo riconobbero e gli offrirono la possibilità di salvarsi, Korczak la rifiutò, decidendo di seguire il destino degli altri. Erano quasi duecento bambini, che formavano un corteo composto, silenzioso e ordinato, chiuso dallo stesso Korczak che non li aveva abbandonati.

La scelta di Korczak e, soprattutto, dei bambini, sono segni straordinari di civiltà, della capacità cioè di rimanere umani di fronte al male ingiustificato e ingiustificabile. Di fronte all’umiliazione e all’odio perpetrati dai nazisti, Korczak e i «suoi» bambini hanno manifestato uno dei valori più elevati degli esseri umani: la dignità.

Quello di Korczak era un umanesimo radicale che, nella sua missione di educatore di bambini bisognosi e sofferenti, si esprimeva soprattutto attraverso le pratiche della solidarietà, dell’inclusione e della relazione reciproca. Riteneva che l’aspetto materiale, intellettuale e comportamentale dell’esistenza umana dovesse fondersi in una dimensione unitaria, dove non c’era alcuno spazio per l’ineguaglianza e le discriminazioni.

Dobbiamo ricordarcelo ogni giorno, non solo in questa ricorrenza. Dobbiamo ricordarcelo ogni volta che assistiamo ad azioni di rifiuto dell’altro, ogni volta che prevaricano l’odio e la volontà ignorante di distruggere le persone, anche se ciò avviene soltanto attraverso le parole, senza rispetto per l’umanità, per le relazioni che tutti noi siamo sempre chiamati a coltivare e che sono indispensabili per garantire una convivenza sociale, civile, giusta e pacifica.

In collaborazione con la Fondazione Fossoli e Isrec, oggi inaugureremo nel chiostro di S. Agostino dell’Università la mostra itinerante «Frida e le altre», dedicata al campo di Fossoli e, in particolare, alle vittime femminili, le donne internate che nel 1944 sono transitale da quel campo, ma anche alle donne non ebree che, da fuori, hanno cercato di aiutare le perseguitate e i perseguitati. Il progetto della mostra è nato proprio per restituire quell’umanità tolta e strappata dai nazisti alle deportate, per dare visibilità e mostrare, attraverso le loro storie, la forza della bellezza, della creatività e dell’aiuto reciproco. La Frida del titolo è Frida Misul: una donna livornese di origini ebraiche, catturata e portata a Fossoli che, con la sua voce meravigliosa, ha saputo sostenere e dar coraggio alle compagne internate come lei, riuscendo anche a salvarsi. Frida Misul e le altre donne raccontate nella mostra sono testimonianza emblematica dell’arte, della musica e della bellezza che danno o, meglio, ri-danno la vita. Un messaggio straordinario e potente di resistenza: un baluardo contro l’odio e la disumanizzazione.

Questo è ciò che dobbiamo trasmettere ai nostri giovani e che Liliana Segre ha invocato nel suo recente intervento bergamasco. Questo è il nostro compito di educatori, di persone adulte che devono farsi esempi di accoglienza, aiuto e condivisione. Secondo Korczak un buon educatore è «colui che non costringe ma libera, non trascina ma innalza, non comprime ma forma, non impone ma insegna, non esige ma domanda».

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